Un lento carrello che è moto perpetuo ci introduce nell'universo inusuale di L'anno scorso a Marienbad, secondo lungometraggio di fiction di uno tra gli esponenti di punta della nouvelle vague francese, quell'Alain Resnais che, solo un paio di anni prima, a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, con Hiroshima mon amour, e assieme a I 400 colpi di François Truffaut e a Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard, aveva fatto conoscere, al pubblico di tutto il mondo, un modo nuovo di fare cinema, spregiudicato, libero e anticonvenzionale.
Quel carrello con cui ha inizio L'anno scorso a Marienbad alterna, senza soluzione di continuità, movimenti in avanti a movimenti laterali che, con la macchina da presa quasi sempre puntata dal basso verso l'alto, ci spingono alla contemplazione dei fregi ornamentali, degli stucchi, dei lampadari e delle figurazioni in trompe l'oeil che adornano i soffitti e le pareti di un albergo di lusso, mentre una voce over recita, in stile quasi àtono, un monologo ossessivo su quelle stesse decorazioni e sul vuoto e l'immobilità di cui l'albergo sembra essere saturo. Il carrello avanza, abbassando ogni tanto il punto di vista a scoprire la linea di fuga dei lunghi e deserti corridoi e la voce over non cessa di ripetere all'infinito le stesse frasi, secondo un moto circolare che è anche del movimento di macchina, nell'esplorazione inesausta di spazi che ci appaiono già visti, occorrenze labirintiche di visioni per sempre condannate a essere uguali a se stesse; poi la macchina curva, senza indizi che ci avvisino del cambiamento di rotta, e va a varcare la porta di una stanza ampia e indistinta, ove, qualche attimo dopo, le parole della voce over prendono a coincidere con quelle dei personaggi dell'ultimo quadro di Casa Rosmer di Henrik Ibsen, testo teatrale che, proprio in quel momento, è rappresentato sul piccolo palcoscenico del vasto salone, davanti a una platea rarefatta di spettatori immobili e silenziosi. Durante il lungo movimento di visioni e parole che abbiamo or ora descritto, una musica per organo, costruita su brevi temi e accordi eternamente ripetuti, non ha quasi mai smesso di far da contrappunto alla rappresentazione.
Questi semplici ma singolari espedienti linguistici, obbedienti ad una logica rappresentativa di pura sperimentazione, hanno il potere di calare lo spettatore dentro una mobilità che esprime, fin da subito, una sorta di corto circuito logico: da una parte, infatti, il movimento di tutto l'apparato semiotico non ha l'aria di potersi fermare; eppure, d'altro canto, quello stesso movimento ci appare destinato a non condurre da nessuna parte se non ad una figura percettiva e concettuale che, nella forma d'una spirale, evoca, con fluidità, il moto che torna eternamente a se stesso.
Osserviamo quest'ultimo paradosso nei dettagli di rappresentazione che contribuiscono a formarlo.
Innanzitutto, è chiaro che, fin dai minuti iniziali di L'anno scorso a Marienbad, lo spettatore si trova in abisso dentro una rappresentazione - tratteggiata con il percorso spaziale della macchina da presa e con la durata temporale della voce e della musica - che significa - direttamente - il tempo che passa e non può non passare. Ma già la circolarità di cui abbiamo parlato conferisce al tempo rappresentato una ben precisa qualità che, poi, nel prosieguo del film, diventa perversione che fa, del tempo stesso, qualcosa di molto diverso dal tempo lineare della nostra consueta immagine percettiva e concettuale _e che, forse, come vedremo, farà diventare la stessa _metafora del tempo il significante metaforico di una profonda riflessione sull'uomo contemporaneo e sul disagio che fu nominato, proprio dagli anni Sessanta, con l'espressione di mal di vivere. Ma andiamo con ordine.
Dove si trova, nel tessuto semiotico del film, oltre che nella tripla circolarità che è segnalata dal movimento iniziale della macchina da presa, dalla voce che ripete le frasi e dalla musica che suona temi e accordi che ritornano, questa perversione del tempo rappresentato che fa sì che il tempo stesso risulti essere qualcosa di nuovo e di abnorme, mostro logico e percettivo? Al di là della metafora iniziale, che, in nuce, contiene tutto il senso del film, il paradosso sul tempo, che del film è il vero incipit, si esprime anche, e forse meglio - più chiaramente, almeno -, nella modalità di narrazione per mezzo della quale è raccontata la storia che è la trama del film.
Un uomo (interpretato da Giorgio Albertazzi) ritrova, tra gli ospiti dell'albergo, una donna (cui dà volto e posture Delphine Seyrig), con cui, a suo dire, ha intrecciato, esattamente un anno prima, in quello stesso posto - o a Fredericksbad, o a Baden Baden, o non importa dove - una relazione sentimentale che aveva avuto, come esito, la promessa, enunciata dalla donna, di fuggire con l'uomo esattamente un anno dopo, quando, per l'appunto, uomo e donna si sarebbero ritrovati a frequentarsi nello stesso albergo che li aveva accolti l'anno prima. Ma la donna non ricorda più la promessa e, addirittura, nega persino la veridicità della storia raccontata dall'uomo e si adopera a convincerlo del fatto che lei, l'anno prima, non ha frequentato nessuno, e che, forse, l'anno prima, non ha nemmeno soggiornato a Marienbad e che, comunque, nell'indefinitezza dei ricordi, resta il dato che lei è, in qualche modo, legata ad un uomo (la figura enigmatica di Sacha Pitoëff) che frequenta e ha frequentato Marienbad e che forse - ma il film non lo dice chiaramente - null'altro è se non suo marito.
Semplice triangolo amoroso, si potrebbe dire; complicato, però, dallo slittare dei piani temporali. La storia raccontata dall'uomo, infatti - per il cui tramite l'uomo si sforza di convincere la donna a ricordare e a prendersi carico del coraggio che è indispensabile a mantenere la promessa della fuga -, si svolge in spazi non congrui, raccordati, senza nessuna preoccupazione di verosimiglianza, con tagli di montaggio che saltano improvvisamente, all'interno dello stesso nucleo diegetico, da luogo a luogo, da stanza a stanza, da ambiente ad ambiente, col risultato di mettere in giudicato non solo e non tanto la coerenza logica e figurativa degli spazi rappresentati quanto, piuttosto, la convinzione spettatoriale che la vicenda avvenga dentro un'unità di tempo determinata e identificata come presente. In altri termini, l'ininterrotto muoversi del montaggio, all'interno del racconto di un'azione o di un dialogo determinati, dentro spazi non consequenti e il continuo mutare d'ambienti e, persino, di vestiti dentro la stessa scena, induce lo spettatore a percepire la narrazione non solo dentro una con-fusione di spazi ma anche, e piuttosto, lungo un rimestarsi e impastarsi dei riferimenti temporali. Il racconto sembra cambiare continuamente tempo. Ma i piani temporali sono inestricabilmente con-fusi, esattamente come gli spazi. Nessuno sa se certe scene si svolgono nel presente oppure nel passato oppure nel futuro. Non c'è nessun segno di interpunzione che possa aiutare a definire il rapporto tra i tempi. Passato, presente e futuro sembrano appartenere ad un tempo che non sa più distinguere le sue scansioni; il tempo che passa non è più in grado di definire cosa è stato il passato, cosa è il presente e cosa sarà il futuro; passato, presente e futuro non sono distinguibili.
Ed è a questo livello di rappresentazione, appunto, che si manifesta la profondità del paradosso cui abbiamo fatto cenno. Perché un tempo che scorre ma non sa più orientarsi e che, soprattutto, non dà appigli che permettano l'identificazione degli stadi che servono a testimoniare il suo trascorrere, diventa, per assurdo, un tempo che non passa, un tempo privo di durata, ovverosia - e si fa chiara e terribile la perversione - un tempo immobile. La circolarità dei movimenti di macchina e delle frasi della voce over, dunque, erano già metafora della perversa qualità di un tempo che è tale solo e soltanto in quanto immobile. Ma un tempo immobile _è un assurdo _esistenziale e pone in forse il senso di realtà. Si entra, così, nel dominio d'una dimensione in cui si fa indistinguibile il reale dal virtuale o, meglio, virtuale e reale si con-fondono. A questo livello, dunque, atto e potenza non sono più due stadi ben differenti dell'ontologìa _del _reale ma si configurano, piuttosto, come un vecchio discrimine logico e metafisico che il film supera nel momento stesso in cui rende incomprensibile il discernimento di ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, di modo che niente più pare appartenere di diritto all'ordine dei fatti che si esplicano nella realtà ma, nello stesso tempo, l'immagine filmica, e il racconto, ci restituiscono un'impressione di realtà, la quale, però, non sa più definirsi chiaramente in base al ventaglio delle possibilità _raccontate nel film ma, al contrario, pare affermare se stessa su tutti i mille piani diversi, finendo, così, per _negarsi proprio nel momento in cui non sa imporre autenticità ad un livello specifico della rappresentazione del racconto ma, altresì, pretende di diffondersi, a pioggia, sulla totalità dei mille frammenti di discontinuità spaziale _che fanno della narrazione un _uno semiotico definito dall'emergere di mille rivoli non convergenti. In L'anno scorso a Marienbad, insomma, tutto diventa virtualità, potenza che non si sa se si è già compiuta, o si sta compiendo, o sta per compiersi.
Affascinati da questo andamento sinuoso che si pone come riflessione profonda, espressa per mezzo di immagini in movimento, sull'indiscernibilità _sostanziale tra _reale e virtuale o, detto in termini narrativi, tra ciò che accade _davvero e ciò che, invece, è solo _pensiero o fantasmagorìa, gli esegeti del film di Resnais hanno a lungo insistito sul valore prettamente filosofico dell'opera, riducendo la specificità della storia narrata _e i _personaggi che fanno la storia a nulla più che funzioni di un discorso argomentativo. Insomma, quando si è parlato di L'anno scorso a Marienbad si è sempre teso ad affermare la profondità concettuale dell'analisi sul tempo e sulla sostanziale inestricabilità che confonde reale e virtuale; mai ci si è soffermati sui sentimenti, le percezioni e le azioni dei personaggi - in due parole: sulla storia narrata.
Eppure, un plot narrativo esiste, e lo abbiamo raccontato. A prima vista, può apparire semplice, banale e, in qualche misura, persino un po' astruso - e forse è per questo che gli interpreti hanno quasi sempre preferito insistere sul valore eminentemente concettuale dell'opera. La trama è tutta implosa nei tentativi insistenti e inesausti con cui un l'uomo tenta di convincere la donna a rispettare una promessa. Eppure - l'abbiamo detto - la donna non rammenta. Nell'ininterrotto andirivieni di grandi ricordi negati con decisione dalla donna e piccoli accenni di memoria che, di tanto in tanto, sembrano riaffiorare alla coscienza di lei, si svolge tutta la storia del film che, come esito, ha dunque, e alfine, la fuga effettiva dell'uomo e della donna, alla mezzanotte di un giorno d'estate, quasi che la donna abbia finalmente ricordato tutto o - forse - si sia rassegnata a qualcosa che era scritto ma resta nell'alveo dell'inespresso o - forse - abbia compiuto un processo interiore stimolato dalle esortazioni incessanti del personaggio di Albertazzi. Il quesito che la storia pone allo spettatore, allora, è ben preciso e, trovando risposta non nella narrazione tout court ma, altresì, nella narrazione immersa dentro quelle scelte linguistiche che, come abbiamo visto, giungono a non più distinguere la scansione dei tempi, poi a suggerire l'emergenza di un tempo paradossalmente immobile e, infine, ad affermare la rappresentazione di una realtà che è tale solo perché la virtualità la riempie e - per così dire - la snerva, il film sembra poter trovare un nuovo equilibrio tra le sue componenti concettuali e quelle più specificamente narrative e drammaturgiche.
La domanda, infatti. è: perché la donna non ricorda? La risposta, indubbiamente, sta proprio in quel paradossale modo di concepire e poi rappresentare le coordinate spazio-tempo utilizzato da Alain Resnais assieme a Alain Robbe-Grillet, sceneggiatore del film, famoso, in quegli anni, per essere il narratore di punta del nouveau roman _francese. Nel _tempo con-fuso, nell'immobilità del tempo, nell'insolubilità _di _reale e virtuale, i ricordi non hanno legittimazione. In questo tempo che è presente che fluisce dentro un'indistinta eternità di cui non si sa più se il predicato debba essere è attuale o è potenziale e che si rappresenta, concettualmente, come una dimensione senza profondità, i ricordi non possono avere diritto di cittadinanza, perché essi, per l'appunto, si muovono all'interno di un universo stratificato e mosso, espresso su piani temporali diversi che fanno spessore: i ricordi hanno spessore. Ma se il mondo in cui vivono i personaggi è piatto e uniformato su un solo livello, diventa chiaro, allora, che la donna non può _avere ricordi. Nell'universo paradossale di L'anno scorso a Marienbad, nessuno può rammentare niente, perché non esiste il _supporto metafisico _per produrre _ricordi. D'altronde, se il mondo è nulla più se non movimento che si distende immobile nel non movimento, l'essere umano non può che assumere i contorni fantasmatici d'ombra opaca che non sa, alfine, esser più nemmeno coscienza. L'individuo immerso nell'universo di Marienbad è essere umano privo di tutte le proprietà che lo fanno tale. Dunque, non solo_ non ricorda_ - e il non ricordare non è solo della donna ma anche di molti altri personaggi dell'albergo, che non rammentano se Franck l'anno prima c'era o non c'era oppure se la nevicata sia avvenuta nell'inverno del '28, del '29 o non sia mai avvenuta - ma anche non percepisce: in numerose inquadrature, la donna sembra guardare nel vuoto - occhi vuoti privi della più pallida luce. E non ha sentimenti, peraltro; ecco, allora, che la donna sembra vivere in uno stato perennemente depressivo, vuoto di qualsivoglia emozione, fatto solo di non so, non può essere vero, àtonie e tendenze a rinchiudersi in sé, in un mondo inviolabile e autistico, privo di relazioni, e denso, soltanto, di indifferenza e disinteresse. E dentro questo mondo, quindi, non possono agire le azioni e, nello specifico, quelle azioni dettate da intenzioni consapevoli: nel film, infatti, nessuno compie qualcosa che sia orientato a una mèta, e le uniche azioni rappresentate sono azioni abortite - i gesti incompiuti e le frasi pronunciate a metà dai personaggi, le situazioni che si ripetono eternamente senza trovare soluzione o gli eterni fallimenti della corteggiata, che è sempre sul punto di dire o fare ma non dice e non fa mai niente - o, addirittura, acquisiscono lo status paradossale _di _azioni-non azioni, come sembrano essere il ripetersi ossessivo del gioco dei fiammiferi proposto dal personaggio di Pitoëff o, ancor di più, quelle inquadrature in cui la fotografia sembra addirittura negare il mezzo-Cinema, nel momento in cui blocca, d'improvviso e senza ragione, i personaggi in pose raggelate e statiche, statue umane che non sanno compiere azioni semplicemente perché, all'origine, non c'è un reale che supporti, prima ancora delle azioni, le percezioni e i sentimenti. E la donna, com'è ovvio, non può non essere il centro della non-azione: ciò che il corteggiatore gli chiede, infatti, null'altro è se non di prendere una decisione, di agire, finalmente, «perché, infine» come lui stesso risponde a lei che gli chiede che cosa l'amore può offrirle «non si tratta di un'altra vita... ma della vita, in definitiva»; vita che, dunque, è fatta, in primo luogo, di azioni, che nessuno, però, compie; tanto meno la donna, così intrisa di non voler fare e, dunque, di non voler essere. Le uniche azioni che la donna permette a se stessa, di nuovo, sono le azioni che si ripetono senza consapevolezza, i piccoli gesti privi di presa sul reale _oppure - al culmine dell'inettitudine - le _azioni subite, come quella della di lei uccisione da parte di Pitoëff, azione forse soltanto desiderata, e piazzata in chissà quale angolo del tempo, per un malinteso senso del dovere o per paura della colpa. E anche da un punto di vista simbolico, quel giardino che circonda l'albergo - giardino perfettamente regolare, costruito attorno a viali e cespugli tutti uguali, a fontane indistinguibili l'una dall'altra e a figurazioni statuarie bloccate in gesti incomprensibili e inefficaci - altro non è se non la suprema sintesi iconografica di un mondo raggelato dentro un tempo immobile, che nega esistenza persino alle espressioni più semplici e naturali della vita stessa.
Ma, allora, anche la struttura drammaturgica e la dinamica narrativa dell'opera acquistano un valore decisamente pregnante. Da questo punto di vista, infatti - o, per meglio, dire, dal complesso di tutti i punti di vista -, L'anno scorso a Marienbad assume valore di testimonianza quasi antropologica: il tempo immobilizzato del racconto _serve a meglio esprimere, tramite un intreccio di comunicazioni _senza codice (le immagini, la musica, i gesti e gli sguardi) e col codice (i monologhi e i dialoghi), l'impossibilità dell'uomo contemporaneo di percepire distintamente, di provare emozioni e, infine, di produrre azioni consapevoli. Il film, allora, ci appare più ricco e, infine, assai vicino alle opere di Michelangelo Antonioni che, proprio in quegli anni, con stessa sensibilità ma diverse metodologìe, affrontava, da par suo, nella famosa tetralogìa (L'avventura,La notte, L'eclisse e Deserto rosso), quel tema che lui chiamava «la malattia dei sentimenti»; diverse metodologìe e, forse, anche diversi approcci ideologici; se Resnais, infatti, si concentra sulla fenomenologìa della malattia, suggerendone, come stiamo per vedere, addirittura una soluzione, Antonioni, forse, provava a scavare più a fondo, cercando di comprendere le cause, anche sociali, della riduzione dell'uomo a cosa spossessata da sé, trovandole negli stadi ultimi di quel capitalismo che tutto mercifica e opacizza.
Come accennato, però, di fronte all'impasse, c'è una soluzione, nel film di Resnais: e si tratta di una sorta di maieutica, di cui fa esercizio sistematico l'unico personaggio vivo di L'anno scorso a Marienbad, che, poi, è forse un doppio personaggio, perché si rappresenta fisicamente nel portamento e nello sguardo di Albertazzi ma anche nella voce over - ancora di Albertazzi -, che, talvolta, sembra quasi personaggio a sé stante. Così, l'uomo che corteggia, per tutto il film, non fa altro che insistere e insistere e insistere: perché la donna torni a percepire - nell'ultima parte del film gli occhi di lei riprendono a essere vivaci e una soggettiva di lei, dentro la camera da letto, a esplorare i tavoli che la circondano, è testimone di rinnovate capacità percettive -; ad amare - si pensi, allora, a quel carrello che vola addosso, a più riprese, e sempre più velocemente, alla donna vestita di piume in camera da letto, mentre, finalmente, spalanca le braccia in un gesto di desiderio -; e, quindi, a fare - la donna, infine, forse un po' per forza, prenderà la sua decisione, e fuggirà dall'albergo assieme alla voce over, lasciandosi alle spalle viali e desolazioni, «andando a perdersi per sempre», come recita la voce, laddove perdersi è sinonimo di vita e istinto ritrovati. Così, nell'ultima inquadratura, con l'albergo ripreso in totale quasi sospeso a mezz'aria, la voce over pare volerci suggerire l'unica via di salvezza da un mondo oramai divenuto disumano, e ce la descrive nei termini d'una fuga anarchica e romantica verso un perdersi che significa, forse, il recupero integrale del principio di piacere.