La notte contesa
James Gray è uno dei "casi" cinematografici più singolari degli ultimi decenni. È difficile, in effetti, non rimanere incuriositi dalla storia di un regista che al suo esordio (il folgorante Little Odessa, vincitore del Leone D'Argento a Venezia nel 1994) aveva conquistato pubblico e critica mondiali, per poi impiegare ben sei anni prima di girare il secondo film, il meno fortunato The Yards. Ne sono passati altri sette prima che questo I padroni della notte vedesse finalmente la luce, un lasso di tempo in cui il nome di Gray ha finito per essere dimenticato dai più, relegato (troppo) frettolosamente tra le promesse non mantenute degli anni '90. L'ingenerosa accoglienza tributata a questa opera terza dai critici presenti al recente Festival di Cannes è la prova di un atteggiamento non più favorevole nei confronti del cinema di questo regista, frutto forse di una disabitudine alla classicità, a un cinema di scrittura e regia che non fa niente per nascondere le proprie coordinate linguistiche. Il tarantinismo (atteggiamento da tenere ben distinto dal cinema di Tarantino, che è altra cosa) ha fatto forse più danni di quanti non ci piaccia ammettere.
Siamo chiari. Gray non è Michael Mann, non ha la capacità del regista di Miami Vice di penetrare la vita e i conflitti interiori dei suoi personaggi con il semplice uso della macchina da presa; e non ha neanche lo sguardo antropologico e radicale di un Johnny To (o del più recente - e straordinario - David Cronenberg). Non pretende di riscrivere la storia del noir trascendendo la scrittura e reinventando il linguaggio cinematografico: il regista newyorkese, piuttosto, si riappropria di una classicità figlia di una frequentazione appassionata del poliziesco americano anni '70, da Friedkin a Frankenheimer, senza dimenticare la lezione del polar francese e persino del neorealismo italiano (per sua esplicita ammissione, il viscontiano Rocco e i suoi fratelli è uno dei principali modelli del film). E' incredibile che parte della critica si sia affrettata a vedere nel film di Gray una copia sbiadita del The Departed di Scorsese (ignorando, come di consueto, le origini hongkonghesi di quel film) senza cogliere che si tratta, in realtà, di un cinema che viene da ben più lontano, preoccupato soprattutto di recuperare un'idea e una prassi del fare film che oggi sembrano più che mai in pericolo.
E James Gray il cinema lo sa fare, questo sembra difficile da negare. La sua notte, quella che i poliziotti reclamano per se nell'esplicita sequenza fotografica dei titoli di testa, è territorio di conquista, zona franca da sottrarre al crimine in una quotidiana, sotterranea ma implacabile guerra. Il regista sa colorarla con le livide tonalità che le si confanno, ne sa cogliere l'humus, tra discoteche, gioco d'azzardo e "abbracci" che si riveleranno fin troppo soffocanti; sa guidarvi i suoi personaggi facendoli perdere e infine ritrovare. Non si può restare equidistanti, specie quando ad essere colpiti sono gli affetti, specie quando l'esplicitarsi del conflitto richiede che si prenda una parte, definendosi una volta per tutte come persone. È quello che succede al protagonista, un notevole Joaquin Phoenix finora schierato, suo malgrado, dalla parte sbagliata della barricata. Ma, come il gangster protagonista di A Better Tomorrow di John Woo, l'uomo troverà infine la sua possibilità di redenzione, insieme a una vendetta altrettanto necessaria.
La compattezza della scrittura è uno dei punti di forza del film, insieme alle ottime interpretazioni (a Phoenix e al fratello Mark Wahlberg va affiancato uno straordinario Robert Duvall); Gray, da par suo, regala grandi pezzi di cinema, tra i quali va ricordata un'incredibile sparatoria in auto e la secca, fulminante resa dei conti finale. L'epilogo solo superficialmente può apparire retorico: in realtà, se messo a confronto con i titoli di testa, dà il senso della chiusura di un cerchio. Questa notte (per ora) è nostra.
Movieplayer.it
4.0/5