La morte al lavoro
I minatori di carbone in Ucraina; gli operai di una cava di zolfo in Indonesia; gli addetti alla macellazione di un mattatoio in Nigeria; i saldatori in Pakistan che demoliscono una nave per recuperarne il ferro; i lavoratori delle acciaierie in Cina.
Non un lungometraggio, né un vero e proprio documentario, indubbiamente una testimonianza cruda del lavoro di bassa manovalanza in un'analisi internazionale a 360°. Realizzata nel 2005, presentata e premiata in diversi Festival internazionali, tra i quali il London film Festival e lo European Film Awards, l'opera dell'austriaco Michael Glawogger esce ora nelle sale italiane e colpisce per la sensibilità con la quale racconta per il cinema la questione lavorativa.
Da un Paese all'altro echeggia la consapevolezza che non c'è alternativa ad un lavoro tanto duro, a convivere con la morte, a trovarsi in condizioni fisiche ed igieniche estreme. Un destino accettato col sorriso, dal minatore innamorato da 21 anni di sua moglie, dall'Indonesiano latin-lover e dai cinesi preoccupati più per le generazioni future che non per la propria incolumità.
Fantasmi, Leoni o Fratelli; uomini invisibili, compenetrati con un paesaggio che li sfama e li minaccia; schiacciati sotto terra a mangiare ravioli, o trasportando tonnellate in bilico sul ciglio del vulcano. Uomini semplici, tagliati con l'accetta, ritratti dal suono dello scalpello sulla roccia. Che sia il giallo dello zolfo o il nero del carbone, ciò che emerge è solo il suono sordo, ipnotico degli attrezzi e il respiro affannato di chi li maneggia.
Ben equilibrati fra loro, gli episodi riescono a tracciare un'idea completa della condizione lavorativa delle masse, rispettando i caratteri nazionali. Così se per gli orientali il lavoro è vissuto con rispetto reverenziale, per gli africani è un dono di Dio, che va celebrato tutti i giorni con canti e danze tribali. L'episodio del mattatoio, nella sua crudezza, trasmette infatti la simbiosi fra uomini e natura che si respira nel continente Nero e, anziché chiudere gli occhi dal disgusto per le decine di gole tagliate, fa interpretare come una carezza pietosa quelle dita che chiudono l'arteria recisa, per consentire all'animale di spegnersi lentamente. "Pelle, budella e teste" largheggiano sullo schermo come impietosi dettagli sanguinolenti, non meno macabri della telecamera che segue i minatori Ucraini fin nelle viscere della terra, in riprese claustrofobiche.
Uomini come statue e monumenti, mescolati in testimonianze viventi, con ironici fermo-immagine che li rendono documenti di loro stessi. Un ritratto della società industriale, dimenticata dietro pile di libri e megabyte. Da vedere assolutamente.