Da I bambini ci guardano a Sciuscià, Vittorio De Sica era solito mettere la macchina da presa ad altezza bambino per mostrarci il mondo che circondava i suoi piccoli protagonisti da una prospettiva ben precisa. Una scelta adottata da molti altri registi nel corso della storia del cinema. Scelta che ci porta diretti alla regista taiwanese Shih-Ching Tsou e al suo La mia famiglia a Taipei che, se volessimo estremizzare, potremmo definire come un film neorealista 2.0. Presentata in anteprima alla Semaine de la Critique a Cannes 78 e premiata alla Festa del Cinema di Roma 2025 con il riconoscimento più importante, la pellicola (in sala dal 22 dicembre) è co-sceneggiata, prodotta e montata da Sean Baker.
Un mix tra Tangerine e The Florida Project, tra futuro e tradizioni asfissianti
La conoscenza tra i due risale al 1999 quando entrambi frequentavano The New School a New York. Una visione simile del cinema li ha uniti dando forma al primo tassello di una collaborazione iniziata nel 2004 con Take Out (il primo film di Tsou e il secondo di Baker) e proseguita fino ad oggi. In mezzo la regista è stata produttrice esecutiva di quasi tutti i film del premio Oscar per Anora, oltre ad interpretare dei piccoli cammei nelle sue opere. Ora, a distanza di 21 anni da quella prima prova dietro la macchina da presa, Shih-Ching Tsou ci riprova e realizza un film che molto ricorda della poetica dell'amico e collaboratore.
È come se Tangerine e The Florida Project fossero stati frullati per dare vita a una storia tutta al femminile in cui il racconto sociale si intreccia a quello umano attraverso tre generazioni di donne. Shu-fen (Janet Tsai), madre single depressa e schiacciata dai debiti contratti dall'ex marito, e le figlie I-Ann (Shin-Yuan Ma) e I-Jing (la vera star del film, Nina Ye), rispettivamente di 20 e 5 anni. Per provare a raddrizzare le loro vite, Shu-fen ha affittato un chiosco al mercato notturno di Taipei. Ma i soldi non bastano mai, neppure per pagare l'affitto di quel piccolo luogo in cui ha riposto tutte le sue speranze.
Intanto la figlia maggiore lavora segretamente come Betel nut beauty vendendo sigarette e noci di Betel (usate come stimolante) in abiti succinti in un piccolo negozio illuminato da luci al neon. I-Jing, spesso sola, ne approfitta per scorrazzare per il mercato. Il suo sguardo ci permette di osservare un mondo colorato, chiassoso, promiscuo, vivace e attraversato da realtà sfaccettate. Dai grattacieli alle baracche e dal benessere alla fame il passo è breve.
Inoltre, a fare da sfondo al film anche la situazione politica in cui si trova Taiwan, da sempre sotto la minaccia della Repubblica Popolare Cinese che non l'ha mai riconosciuta. Mentre dal canto suo l'isola è ancora la sede del governo della Repubblica di Cina (prima che Mao Tse-tung salisse al potere alla fine della guerra civile) che considera come l'unica, vera Cina esistente. Uno scenario che lascia la sua impronta nella sceneggiatura capace di catturare la duplicità che attraversa il Paese e i suoi abitanti. Da un lato proiettati verso il futuro, dall'altro ancorati a tradizioni asfissianti.
L'ironia agrodolce de La mia famiglia a Taipei
È su questo terreno che si gioca molto del film. Le tre protagoniste sono oppresse da una società che vive ancora fortemente influenzata dal senso dell'onore, dalla necessità di vivere vite senza macchia per non subire lo scherno e il giudizio altrui. Una tendenza a nascondere l'errore e il fallimento presente anche in Occidente, ma che in Oriente ha un peso specifico capace di condizionare il corso dell'esistenza. La mia famiglia a Taipei cerca di scardinare questa visione attraverso I-Ann e I-Jing, le due generazioni più giovani, calandole in situazioni complesse.
Il titolo originale del film Left-Handed Girl si riferisce al fatto che la piccola I-Jing è mancina. Quando il nonno materno se ne accorge va su tutte le furie perché ancora legato ad antiche superstizioni (che anche in Italia conosciamo bene) e intima alla bambina di usare la destra e non "la mano del diavolo". Questo scatena in I-Jing una reazione inaspettata. All'insaputa di tutti inizia a rubare svariati oggetti dai vari stand del mercato notturno usando solo la mano sinistra che, appartenendo al diavolo, nella sua logica infantile non la rende colpevole.
I-Ann, invece, deve fare i conti con un segreto enorme, la consapevolezza di essere considerata merce da certi uomini e l'assenza di un padre che ha influito sulla sua vita e quella della madre che, nonostante tutto il male ricevuto, ha continuato ad occuparsi di lui. Nonostante sia un film con al centro protagoniste femminili, quello che appare chiaro nella storia cosceneggiata da Tsou e Baker è come sia sempre l'azione di un uomo ad aver condizionato il loro passato e presente. Quello che il film ci racconta è il tentativo di cambiare rotta al futuro.
Un arco narrativo di certo non nuovo e che molto cinema orientale e occidentale ci ha raccontato in questi anni. Ed è sicuramente questo il limite de La mia famiglia a Taipei. L'assenza di una svolta che il pubblico non ha già messo in conto. Ma spesso l'importante è come le storie vengono raccontate. E Shih-Ching Tsou ha saputo infondere il suo film di un'ironia agrodolce dando spazio alle tre attrici di brillare in interpretazioni capaci di far sentire il peso dell'incertezza, la solitudine o il senso di colpa che i loro personaggi attraversano.
Un racconto su un'infanzia sacrificata filmato con l'iPhone e che la fotografia di Chen Ko-Chin e Kao Tzu-Hao avvolge nella luce al neon del mercato notturno di Taipei, altro co-protagonista del film. Una creatura viva che respira al ritmo delle tante anime che lo percorrono.
Conclusioni
Premiato alla Festa del Cinema di Roma 2025, La mia famiglia a Taipei di Shih-Ching Tsou è un film che tanto deve alla poetica cinematografica di Sean Baker, stretto collaboratore della regista Shih-Ching Tsou che ha co-sceneggiato, prodotto e montato il film. Una storia tutta al femminile dove il racconto intimo incontra quello sociale attraverso le vite delle tre protagoniste, rappresentanti di altrettante generazioni di donne alle prese con una società divisa tra futuro e tradizioni asfissianti. Girato con l'iPhone, il film brilla per un’ironia agrodolce capace di catturare la duplicità di un Paese sospeso. Nonostante un arco narrativo non del tutto originale, la pellicola cattura per la forza delle interpretazioni. Un racconto intimo su un'infanzia sacrificata che riesce a trasformare il caos vivace di Taipei in un vero co-protagonista.
Perché ci piace
- Le interpretazioni delle tre protagoniste
- La regia “umana” e dinamica di Shih-Ching Tsou
- La fotografia di Chen Ko-Chin e Kao Tzu-Hao
- Il racconto di un Paese diviso tra superstizione e futuro
Cosa non va
- La sceneggiatura non regala svolte inaspettate