Un dramma familiare al femminile, in un microcosmo dagli equilibri precari dove ciascun personaggio si trova spesso nel posto sbagliato e ogni ruolo sfugge a qualsiasi forma di categorizzazione. In questo piccolo caleidoscopio di sussulti emotivi, ire e rancori inespressi madri e figlie sono perennemente in guerra, mentre le tensioni esplodono sullo schermo. Non può che partire da qui la recensione di La ligne - La linea invisibile, terzo lungometraggio di finzione di Ursula Meier (presentato in concorso allo scorso Festival di Berlino) dopo Home nel 2008 e Sister di quattro anni dopo. In sala dal 19 gennaio il film è un flusso di non detti, confini invisibili e cortocircuiti dell'anima, un vero e proprio western dove i duelli si consumano a distanza.
Il dramma familiare
La regista svizzera Ursula Meier continua la propria personalissima esplorazione delle dinamiche relazionali all'interno di nuclei familiari disfunzionali. Lo fa questa volta servendosi di un universo quasi interamente al femminile dominato da maternità irrisolte e conflitti sempre sull'orlo di esplodere. L'intero racconto e le tensioni che ne derivano si svilupperanno infatti attorno ad una violenta lite, protagonista sin dalla prima scena in slow motion: oggetti che si infrangono contro la parete sulle note di una musica classica. Subito dopo la macchina da presa si sposta sui volti stravolti dalla rabbia dei personaggi coinvolti nella rissa casalinga in corso tra Margaret, figlia trentacinquenne con una lunga storia di violenze alle spalle, e sua madre Christina, oggi insegnante di musica e in passato compositrice di successo, almeno fino all'arrivo di quella secondogenita così rabbiosa eppure tanto fragile. Dopo la brutale discussione Margaret viene letteralmente sbattuta fuori di casa: trascinata sulla soglia e lasciata in mezzo alla neve.
Come se non bastasse in seguito alla denuncia da parte di Christina, che nella colluttazione ha perso parte dell'udito battendo la testa contro il pianoforte, il giudice emetterà un severo ordine restrittivo che le imporrà per almeno tre mesi di non entrare in contatto con la madre né di avvicinarsi a meno di cento metri dalla casa di famiglia. Una separazione che Margaret non ha nessuna intenzione di accettare, anzi comincerà il suo quotidiano peregrinare attorno all'abitazione sulla soglia di quel confine, tanto invisibile quanto invalicabile.
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Un western dell'anima
La Ligne - La Linea invisibile è un film forte di una sceneggiatura solida e di un cast di attrici abilmente dirette. C'è una madre (Valeria Bruni Tedeschi) infantile e sfuggente, che ha sempre accusato le tre figlie (Louise, Margaret e la piccola Marion) dei fallimenti della sua carriera da pianista e che passa da un flirt all'altro illudendosi che la relazione con il giovanissimo Hervé sia finalmente quella giusta; c'è la piccola Marion (Elli Spagnolo), che dentro ha già il peso della vita adulta, una ragazzina dotata della consapevolezza che spesso manca allo sguardo dei grandi. Sarà lei a disegnare con un po' di vernice azzurra quella linea di confine oltre la quale a Margaret è proibito andare e dove la incontrerà per continuare a prendere lezioni di canto.
C'è una primogenita (Benjamin Biolay) incinta di due gemelle con gli occhi ingenui e la tiepida incoscienza di chi ancora madre non lo è, e poi c'è Margaret (Stéphanie Blanchoud, che ha anche collaborato alla sceneggiatura), una donna cresciuta all'ombra del rapporto nevrotico con la madre, incapace di canalizzare la rabbia se non in violente aggressioni. Margaret fa a pugni con tutti, ma soprattutto con se stessa, "combatte come un uomo e come un animale ferito", il "cowboy solitario" di questo western, come ci tiene a definirla la regista. Blanchoud che la interpreta è la vera rivelazione del film, è occhi e nervi, sguardo e corpo, quello martoriato da lividi e cicatrici che non fanno in tempo a guarire, che già devono essere ricucite. "Quando non assomiglierai più a niente, che cosa farai?", gli dirà l'ex compagno, l'unico da cui trova rifugio dopo essere stata sbattuta fuori casa.
Il ruolo dello spazio nella narrazione
A definire le dinamiche sono anche gli spazi: il canale, la strada, la ferrovia che corre lungo la casa, il panorama innevato per le vie di un anonimo paesaggio urbano, la piccola collinetta di terra dove Margaret e Marion si incontrano per studiare canto, la linea dapprima invisibile poi sempre più vivida e tangibile che separa la protagonista dalla sua famiglia, sono tutti elementi fondamentali per il procedere della narrazione. Il racconto va avanti grazie alla tensione generata da quei cento metri, rappresentazione di una distanza sia fisica che simbolica. Un viaggio nelle emozioni a colpi di sguardi, silenzi e confini invalicabili.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di La ligne - La linea invisibile ribadendo quanto detto in precedenza. La regista svizzera Ursula Meier si conferma ancora una volta una raffinata esploratrice delle relazioni umane e familiari. Questa volta lo fa con un film che è un flusso di non detti, confini invisibili e cortocircuiti dell’anima, un vero e proprio western dove i duelli si consumano a distanza. Merito di una sceneggiatura che trasforma la dialettica tra gli spazi in motore della narrazione e di un cast femminile che fa scintille. Menzione speciale per Stéphanie Blanchoud.
Perché ci piace
- Il rigore e lo stile composto con cui Ursula Maier esplora i tumulti di una famiglia disfunzionale.
- L’uso degli spazi: la geografia dei luoghi e la dialettica del "dentro/fuori" quella linea di confine oltre la quale la protagonista non può muoversi, diventano il naturale motore della narrazione.
- Stéphanie Blanchoud fa del proprio corpo, degli sguardi e dei silenzi il cuore di un’interpretazione che segna l’intero film.
Cosa non va
- La prima parte del film procede un po' a fatica.