Sgombriamo subito il campo dai possibili equivoci. La febbre che colpisce il personaggio protagonista del quinto lungometraggio di Alessandro D'Alatri - pur manifestandosi fisicamente come il malessere tipico di chi ha subito un eccessivo e repentino raffreddamento - nient'altro è, in un'ottica funzionale, se non una metafora psicologica, che segna il punto di non ritorno di un disagio dell'esistenza e che, esprimendosi in forma di crisi, si rappresenta come passaggio oramai non più evitabile: quando la febbre insorge - e, in questo caso, prevenire non è meglio che curare - la si affronta, la si deve affrontare, perché, solo affrontandola, si diventa finalmente se stessi.
In più, nell'incantato microcosmo acquerellato da D'Alatri, tutto l'universo semiotico del film collabora, quasi fosse organismo vivente, a realizzare la formazione di Mario. La febbre, allora, raccontata nella splendida sequenza notturna e tempestosa, da rito purificatorio, in cui Mario è sofferente-disteso-senza sensi sul selciato della Piazza del Duomo di Cremona, è occorrenza simbolica cui il film perviene, nella sua totalità, seguendo linee concentriche e richiami narrativi che partono da lontano e in quella sequenza, appunto, si raccordano: tutta l'esperienza di Mario corre in direzione di quella febbre, al punto che persino gli agenti atmosferici, scatenati come non mai, collaborano, in quella notte - proprio come fossimo al cospetto di una fiaba -, a far di Mario ciò che Mario realmente è.
Come in una fiaba, appunto. Nella sua struttura di racconto, e nelle dinamiche messe in gioco, il film di D'Alatri si definisce, insomma, più o meno precisamente, nell'orizzonte della 'morfologia della fiaba', quella attorno a cui ha esercitato per lungo tempo la sua analisi Vladimir Propp. E, se di fiaba si tratta, il protagonista è un novello Don Chisciotte e, come tutti i personaggi-funzione proppiani, Mario persegue un obiettivo, anche se non ne è del tutto consapevole: l'autorealizzazione, fuori dalle regole della vita comune e dalle deformazioni che affliggono, anche al livello più basso, il sistema d'organizzazione del lavoro nel mondo capitalistico. Deformazioni che, sociologicamente parlando, Mario sperimenta, in pieno paradosso logico, non dall'interno del mercato selvaggio e privatistico del neocapitalismo finanziario ma nei trucchi e nei piccoli abusi di potere di cui si sostanzia l'ufficio tecnico comunale, nel cui entourage è chiamato a lavorare, quasi per magìa e senza nessun preavviso.
Il film, quindi, si presenta, fin da subito, nel bipolarismo d'una doppia tessitura: quella della fiaba, appunto, al cui interno si sviluppa, però, tutta la riflessione sul malcostume e sul conformismo - che, per D'Alatri, vanno di pari passo - della mentalità contemporanea di una città italiana di provincia. La fiaba, in quanto elemento paradigmatico che muove l'azione, resta sempre preponderante, ma come dimenticare gli accenti posti sulle piccole ma perfide illegalità dell'ingegner Cerqueti, sulla rassegnata sudditanza degli altri impiegati, sull'opaco conformismo della famiglia e degli amici, che segnano come colpa ogni tipo di deviazione, dalla barbetta a pizzo tanto pervicacemente detestata alla storia d'amore mal sopportata perché troppo spontanea e libera dai formalismi dei riti comunitari? Ecco, allora, una strana commistione d'impostazioni narrative, che condurrebbe quasi a parlare d'un qualcosa che potremmo definire con i termini antitetici di fiaba analitica sociale. Ne vien fuori allora il profilo d'un'opera schizoide; c'è analisi sociale, ma non va troppo a fondo: si ferma sul piano dell'indagine della moralità dei comportamenti e della pesantezza d'una morale conformista; non scende mai dentro il campo - ben più impegnativo - dell'osservazione dei rapporti strutturali economici che sono i generatori di quella stessa morale. D'altro canto, è proprio il richiamo al mondo della fiaba che impone l'impasse al procedimento dell'analisi: non si può andare troppo addentro alle questioni strutturali che concernono il macrocosmo socio-economico - si farebbe un saggio per immagini, altrimenti -, se si vuol mantenere la fascinazione del racconto. Film a doppio piano, dunque, persino nel linguaggio. Quando D'Alatri persegue l'inscenamento dialettico di contraddizioni sociologiche, ecco che anche il linguaggio visivo diventa conforme e conformista: nelle sequenze del lavoro impiegatizio e della vita familiare-sociale così come dovrebbe essere, ecco che le regole di una visualità classica sono rispettate in buona parte, con campi e controcampi, ambientazioni neorealistiche, montaggi d'azioni e reazioni, mdp molto spesso frontale e piazzata ad altezza occhi di modo che registri e non inventi, stile basso comico nel raccontare i preconcetti dell'ambiente familiare. Eppure, già il modo in cui è rappresentata Cremona, con le sue nebbie, i suoi tepori e l'atmosfera sospesa della provincia, diviene, per paradosso, un'invalidazione stilistica della critica sociologica effettuata, la quale, da che Cinema è Cinema, ha sempre richiesto complementarietà nel rappresentare gli abissi di una società con la messa in abisso della stessa rappresentazione. Qua, invece, l'Italia di provincia resta bella e incantata, nelle luci soffuse, nello splendore delle campagne, nella magìa delle architetture. E non servono a invertire il senso di questo registro le trovate anche più brillanti, come il gag verbale del Presidente che, volando in aereo sull'Italia, commenta, tra il trasognato e l'ironico: «L'Italia è tutta bella... e questa è la distanza giusta per ammirarla». Insomma, l'incanto dell'ambientazione è disomogeneo alle tesi sociologiche del film ma - e questo è il punto - ci pare del tutto organico, di nuovo, alla logica narrativa della fiaba.
Di quest'ultima - come detto - Mario è l'indiscusso protagonista. Ma, come per ogni fiaba, non può non saltar fuori d'improvviso l'immancabile antagonista, delegato, a livello di funzionalità narrativa, a far sì che l'avventura del protagonista abbia il cammino ammantato di ostacoli. Nel film, la figura d'opposizione è l'ingegner Cerqueti, anche e soprattutto perché, durante il corso del racconto, nessuno sa, e nessuno capisce, perché, alfine, costui ce l'abbia tanto con Mario. «Se l'invidia fosse febbre tutto il mondo ce l'avrebbe»: soluzione proverbiale, proposta a Mario dal padre dentro una visione-sogno dal sapore decisamente felliniano. E, se così è, ciò ci conferma nella nostra impostazione, perché l'invidia, nel mondo della narrazione, è, da sempre, sentimento oltremodo sfruttato dall'universo diegetico della fiaba. Di spalla all'antagonista principale, si agglomerano, poi, altri oppositori, provenienti dal mondo intimo di Mario: la madre e gli amici, personaggi di scarso spessore psicologico eppur tutti funzionali - di nuovo - a far muovere Mario, proprio grazie alla loro opposizione, nella direzione determinata del suo obiettivo/sogno. D'altronde, Mario non uscirebbe vivo dalle grinfie del proprio antagonista, se non si schierasse dalla sua parte qualche personaggio che, ancora nell'ottica squisitamente proppiana, non acquisisse le funzioni di aiutante magico. In tal senso, Mario è fortunato: di aiutanti ne ha ben cinque, alla fin dei conti. Solo che i primi tre ottemperano a questa funzione in maniera fallimentare. Si veda Faoni, il vecchio collega d'ufficio dispensatore di consigli. È lui che, per primo, si muove a sostegno di Mario, senza poterlo aiutare, però, perché lui stesso, nella sua vita, ha rinunciato, da sempre, ad ogni conflitto, perseguendo un personale sogno, del tutto contraddittorio in termini: rassegnarsi all'ingiustizia delle gerarchie nell'attesa di una serenità che si espliciterà fuori del lavoro, come se la società fosse fatta a compartimenti stagni; si tratta, è chiaro, di un vagheggiamento irrealizzabile, nella misura in cui non fa i conti col tempo e con la morte che, infatti, arriverà, inesorabile, il giorno seguente all'uscita dal lavoro. Si veda anche la figura del Padre Biologico, cui Mario si rivolge, come a un fantasma, alla ricerca di un possibile alleato; ma Carlo Bettini, ex impiegato comunale, compromesso, forse per abitudine, con le logiche fuorvianti del Potere, non può certo giocare nessun ruolo. L'altro aiutante fallito, poi, è il Presidente della Repubblica, e quindi è la società nel suo Simbolo, è il Padre Putativo, che, in sogno, cerca di convincere Mario con poco più che sterili frasi di circostanza.
In realtà, gli aiutanti veri sono Linda e l'amico Bicio. Linda è sogno, vestita di erotismo e poesia, che si esplicitano, assieme, nel primo incontro virtuale, quando Mario la vede ballare in discoteca, visione deflagrante che, nel cinema di D'Alatri, si manifesta in un exploit hi-tech di montaggio digitale, con Mario trasformato in personaggio volante che esplora il corpo di Linda, novello amante in volo (il cognome dell'attore è solo casualità?) che sembra uscito fiabescamente dal pittore di fiabe del Novecento, il russo Marc Chagall. Linda, poi, regala a Mario la chiave per conoscere se stesso e rendersi consapevole, lasciandogli, non certo per caso, nell'intercapedine del divano d'amore, Mappe dal nuovo mondo di Derek Walcott, poeta americano, la cui composizione più nota, Amore dopo Amore, si fa verbo e guida di un'emancipazione oramai dietro l'angolo. Linda, inoltre, è la molla che fa scattare il primo cambio di destinazione dei luoghi, operazione maieutica - e non burocratica, come quella che aspettano gli amici di Mario per il tanto agognato locale - attraverso cui il mondo si ricostruisce attorno ad altre coordinate, e ciò che aveva un segno, dopo un processo magico di elaborazione, adesso ne acquista un altro. In tal senso, Linda fa uscire Mario di casa - il luogo delle imposizioni e delle regole - e lo porta in cascina, luogo del sogno realizzabile, spazio di libertà in cui ciascuno («Siediti: è festa. La tua vita è in tavola») riprende la piena proprietà di se stesso.
Ma il vero aiutante magico, in fin dei conti, è Bicio, l'amico un po' randagio, scontroso in apparenza, ma pronto, altresì, ad ogni forma di condivisione. Bicio è mago anche e soprattutto perché, già di per sé, è un alchimista: prende i pezzi delle cose, i frammenti oggettuali dichiarati inutili dalla società contemporanea, le scorie del metallo trasformato in merce, e conferisce loro vita nuova. Grazie a Bicio le immondizie della discarica tornano ad essere oggetti preziosi, a partire dai quali si può scrivere - col cuore - una tesi di laurea il cui titolo è, per l'appunto, Discarica e Design oppure si può realizzare, una volta per tutte, quel locale i cui destini sembravano destinati al niente, riempiendolo di materiale di scarto trasformato in oro come fa l'alchimista con la pietra grezza. Ed anche l'altro luogo frequentato da Mario - il più importante e simbolico: il cimitero - può diventare, nel giro di cinque giorni, Teatro di Vita e di Trasformazione, e luogo dove si fa ammenda delle ingiustizie del Potere. Su quest'altro versante del film, che, peraltro, ha un linguaggio diverso, con le aperture improvvise del montaggio, gli effetti digitali, le inquadrature distorte e i voli pindarici della mdp sulla campagna padana e gli sguardi obliqui sulle persone e le cose, si compie la fiaba di formazione di Mario, che, alla fine, riavrà la sua Linda tornata dall'America e andrà ad abitare in cascina, trasformata in atelier laboratorio di non si sa che cosa, assieme a Bicio, alla compagna incinta di Bicio - vita produce vita, nel mondo della fiaba - e recupererà rapporti familiari e amicali sereni, seppure segnati da una distanza oramai irrinunciabile.
Domanda: per D'Alatri e i suoi sceneggiatori - Gennaro Nunziante e Domenico Starnone - l'unica possibilità di salvarsi dalla mercificazione della vita e dei sentimenti si risolve dunque nell'esplicitazione del concetto della fuga? Sembrerebbe di sì e, in questo senso, La febbre rappresenta, dunque, la tappa ulteriore di un cineasta in continua evoluzione, se si pensa che solo nel 2002, con il fortunatissimo Casomai, D'Alatri aveva formulato tutt'altro tipo di ipotesi: la bellezza consolante di un classico ménage matrimoniale nella serena accettazione della vita quotidiana.