È struggente il modo in cui La folle vita si tuffa nella rappresentazione della malattia e delle genitorialità facendone un centrifugato di simbolismi, commozione, ironia e grazia. Nella recensione de La folle vita cercheremo di dimostrarvelo, analizzando le scelte stilistiche e narrative della coppia di autori belga Raphaël Balboni e Ann Sirot, che con questo piccolo dramma irriverente esordisce alla regia. In sala dal 29 giugno il primo lungometraggio dei due estrosi cineasti di Bruxelles dà libero sfogo all'approccio avanguardista già sperimentato nei loro cortometraggi. Il risultato è un film che fa del paradosso e dei simboli il proprio focus, sempre però al servizio della narrazione.
Storia di genitori e figli
Scene che prendono vita durante le prove, una scrittura in divenire che non accetta incasellamenti e la libertà di scegliere i luoghi delle riprese e gli attori, grazie anche a un budget limitato: l'universo di Balboni & Sirot è il frutto di anni di lavoro spericolato e anarchico, il loro modo di fare cinema è uno straordinario condensato di sogno, delirio e follia. Una formula vincente che si ripete anche ne La folle vita, storia di una coppia di trentenni, Alex (Jean Le Peltier) e Noémie (Lucie Debay), alle prese con il desiderio di un figlio, i cui piani saranno sconvolti dall'anziana madre di Alex, Suzanne (Jo Deseure), settantenne benestante, ex curatrice di una galleria d'arte come dimostra la sua casa tappezzata di quadri.
La donna comincerà infatti a comportarsi in modo eccentrico e bizzarro: il motivo lo rivelerà ben presto la diagnosi di una malattia neurodegenerativa simile all'Alzheimer, la demenza semantica, dove il deterioramento celebrale attacca le aree responsabili del linguaggio e del comportamento. Suzanne inizia ad esempio a fare spese sconsiderate, si intrufola in casa dei vicini nel cuore della notte e realizza una patente fai da te con carta, forbici e matite colorate. Nel giro di poco più di un'ora lo spettatore assisterà al dissolversi di una vita, al suo scolorare in qualcosa d'altro: Suzanne diventa una bambina ingestibile, perderà gradualmente le proprie inibizioni e la capacità di formulare frasi logiche, mettendo in crisi la relazione tra Alex e Noemie e i loro propositi genitoriali.
La vecchiaia e la malattia come rottura degli schemi
La folle vita si sviluppa su più binari rivelandosi un film profondamente stratificato: da un lato la malattia, la cura del prossimo e la vecchiaia e dall'altro la genitorialità e la progettualità di un futuro che entra improvvisamente in crisi. La malattia irrompe nella vita di Alex e Noemie e la sconvolge tanto più se il suo avanzare corrisponde all'abbandonano dei codici sociali, che regolano cosa si può e non si può fare, o come ci si dovrebbe presentare in pubblico (non nudi ad esempio, come invece capiterà a Suzanne). A soffrire della incontrollabile eccentricità della madre è soprattutto Alex, che fatica a riconoscere in quei capelli bianchi e spettinati, nello stile stravagante e nel corpo a volte rallentato dagli psicofarmaci la donna elegante di un tempo. Imbarazzo, ma anche desiderio di trovare il modo giusto di prendersene cura e proteggerla dal mondo esterno profondamente giudicante: è per questo che all'inizio pur di starle accanto sacrificherà tutto, lo svago, la relazione con la compagna e il loro progetto familiare, salvo maturare alla fine una consapevolezza diversa che gli farà amare questa nuova versione di Suzanne.
La malattia diventa l'occasione per guardare la vita da una prospettiva diversa e averne una comprensione più ricca: la protagonista ci trascina nello spazio della trasgressione continua e puramente gioiosa, oltre i confini del socialmente accettabile. Si tratta solo di imparare a conviverci come del resto faranno Alex e Noemie; al primo servirà solo un po' più di tempo per avviare un percorso di emancipazione che cambierà il suo modo di stare al modo.
La cura stilistica
Un film delirante, folle e malinconico come la nuova vita di Suzanne la cui malattia si fa lentamente largo nella intimità della coppia. Un'invasione che i registi tradurranno sul piano stilistico con un escamotage visivo: il motivo floreale delle lenzuola che la donna regalerà per il loro nuovo letto comincia a coprire qualsiasi oggetto o soprammobile della camera da letto, la coperta, il pigiama di lei, la lampada, le tende, i cuscini fino a depositarsi sulla camicia di lui e gli abiti che indossa fuori, quando Alex cambierà prospettiva e inizierà ad accettare la nuova Suzanne. La messa in scena, l'uso dei colori, i colloqui stranianti dei protagonisti con inquadrature frontali che li riprendono mentre parlano con qualcuno che si trova al di qua della camera e gli inserti di alcuni dettagli indecifrabili sono il riflesso dello stato d'animo dei personaggi e della loro evoluzione.
Lontano da manierismi inutili le scelte stilistiche dei due cineasti trovano sempre una propria giustificazione, senza sacrificare la dimensione emotiva e il fluire della narrazione, che ci consegna le sbavature di un mondo folle e non sempre con la barra dritta. Ma proprio per questo forse il più libero e rivoluzionario tra tutti i mondi possibili.
Conclusioni
La recensione de La folle vita si conclude ribadendo l’originalità e l’irriverenza di un’opera prima capace di raccontare la malattia da una nuova prospettiva: guardare la vita e accettarne le storture e le trasgressioni normalmente bandite dai codici sociali che la regolano. La coppia di registi belga Raphaël Balboni e Ann Sirot riesce nell’impresa di combinare insieme genitorialità e malattia, realizzando uno strano coming of age tra figli imbarazzati e madri eccentriche, in un percorso di emancipazione e crescita che sapranno egregiamente tradurre anche sul piano stilistico. Un film che trova nella sperimentazione la sua ragion di essere.
Perché ci piace
- Un film folle, malinconico e delirante capace di raccontare la malattia da una nuovo prospettiva.
- I registi riescono nell’impresa di combinare con equilibrio ironia e struggente commozione senza per questo scivolare nel già visto.
- L’abilità di raccontare la malattia come rottura degli schemi, trasgressione e occasione per trovare un modo di stare al mondo che passi dall’accettazione di ciò che sarebbe altrimenti sconveniente.
- Una messa in scena carica di simbolismi che nulla toglie però all’impatto emotivo della narrazione.
Cosa non va
- Il linguaggio poco convenzionale, irriverente e parodistico usato dai registi potrebbe non essere compreso fino in fondo dagli spettatori meno inclini a questo tipo di sperimentazioni.