Ci sono momenti della storia del nostro mondo che conosciamo in modo meno approfondito, perché magari riguardano luoghi o periodi lontani dal nostro luogo d'origine, di cui conosciamo gli sviluppi socio-politici solo a grandi linee, di riflesso, a sprazzi e senza la visione d'insieme necessaria a comprenderli nel profondo. Ammettiamo per esempio la nostra sommaria conoscenza della storia dell'India, delle modalità che hanno portato alla fine della colonia britannica iniziata a fine '800 e delle conseguenze che ha comportato per il popolo indiano.
Un momento storico datato 1947 al quale la regista Gurinder Chadha dedica il suo La fine di un impero, presentato fuori concorso al Festival di Berlino e già pronto ad una distribuzione italiana. Un film che la regista, di origini indiane, la sua famiglia apparteneva ai Sikh del Punjabi, ha voluto realizzare anche per motivi personali, ma adottando uno stile ed un punto di vista esterni all'India, essendo cresciuta tra Kenya e Regno Unito.
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L'anno della transizione
L'anno scelto dalla regista per ambientare la storia di La fine di un impero (Viceroy's House il titolo originale) è particolarmente cruciale nella storia recente dell'India, perché è il momento in cui la colonia britannica si sta avviando alla sua conclusione. Nel 1947, Lord Mountbatten, nipote della Regina Victoria, si trasferì con la famiglia nella casa del Vicerè di Delhi, con il compito di supervisionare il passaggio del paese verso l'indipendenza. Una transizione che si rivela più complessa del previsto, con l'esplosione di violenza tra le diverse etnie che abitavano l'India, i Mussulmani, gli Hindu e i Sikh. Una divisione che coinvolge anche il numeroso staff della casa del Vicerè, composto da cinquecento persone, tra i quali la mussulmana Aalia e il servitore Hindu Jeet, la cui storia d'amore viene travolta dagli tragici eventi. Una situazione che, tra tumulti e violenze, arriva ad un momento chiave, quello di decidere da che parte stare, se da quella del Pakistan mussulmano o dell'India, i due blocchi in cui il paese fu diviso.
Lo sguardo personale
È evidente l'urgenza personale della regista nel voler raccontare le difficoltà di un periodo storico che i suoi stessi nonni hanno vissuto, aprendo Viceroy's House, forse con un pizzico di polemica, con la citazione "La storia è scritta dai vincitori". Allo stesso modo le didascalie finali, con i terribili numeri di quel massacro, contribuiscono a dare un'idea di quello che il passaggio verso l'indipendenza indiana ha rappresentato. Eppure, nel film della Chadha c'è troppo poco per informare in modo accurato, troppo poco per legarci ai personaggi ed emozionarci con le loro storie, che finiscono per andare poco oltre quelle di una fiction nostrana, a dispetto di un dispiego di mezzi, scenografie, ricostruzioni e comparse di non poco conto. Un impegno produttivo evidente anche considerando alcuni nomi del cast, da Hugh Bonneville e Gillian Anderson nei panni dei coniugi Mountbatten, a Michael Gambon in quelli di Ismay e Lily Travers in quelli di Pamela Mountbatten.
L'approccio internazionale
La presenza di un cast di richiamo internazionale accompagna in modo coerente la scelta di non realizzare un film dal punto di vista delle popolazioni indiane, ma da quello esterno di qualcuno cresciuto lontano dal paese in cui la storia è ambientata. Questa decisione, però, avrebbe richiesto un maggior dettaglio sui risvolti specifici di quel periodo, su eventi e motivazioni che sono solo accennate e poco approfondite. È vero che La fine di un impero non è un documentario e non ha l'obbligo di illustrare e chiarire ogni punto del periodo storico che racconta, ma il suo dare per scontate così tante informazioni impedisce allo spettatore di entrare in sintonia con la vicenda ed i suoi personaggi, rischiando di fallire anche dal punto di vista puramente narrativo.
Movieplayer.it
2.5/5