Sul tema dell'adolescenza perduta nella comunità black di Harlem e dintorni sono state prodotte pellicole ben più convincenti di Yelling to the Sky. Il film indipendente, scritto e diretto dall'esordiente Victoria Mahoney, attinge al background autobiografico della stessa autrice, cresciuta nelle periferie di Regis Park e Bay Shore a Brooklyn, discostandosi dalla verità quando questa non è più funzionale al plot. E' ancora vivida la memoria di un altro esordio per certi versi assimilabile a questo, quello dello scrittore Dito Montiel, il quale ha sublimato un'esperienza di crescita e di conflitto familiare nei sobborghi bianchi, ma ugualmente malfamati, del Queens realizzando il bel dramma Guida per riconoscere i tuoi santi, per non parlare dell'opera seconda di Lee Daniels, il pluripremiato Precious del quale, in Yelling to the Sky, non rimane altro che la presenza della protagonista Gabourey Sidibe in un ruolo di contorno. Victoria Mahoney, attrice nota per la sua partecipazione alle commedie Nei panni di una bionda e La rivincita delle bionde, maneggia un materiale che dovrebbe esserle ben noto narrando la storia dell'adolescente Sweetness, suo alter ego, che soffre per la disastrata situazione familiare e per le aggressioni dei compagni di scuola, ma nonostante l'apprezzabile asciuttezza narrativa la vicenda mostrata manca di coerenza e partecipazione.
Le tappe del percorso di formazione di Sweetness passano attraverso il confronto con i bulli che la perseguitano per la sua debolezza, il legame con la coraggiosa sorella maggiore Ola, giovane ragazza madre pronta a comprendere e perdonare le debolezze dei membri della sua famiglia, e le violenze subite da un padre alcolista che scarica la propria frustrazione sulle figlie e sulla catatonica consorte. La svolta, per Sweetness, arriva nel momento in cui la ragazza si ribella alle persecuzioni scegliendo di diventare lei stessa una 'bulla', con tutte le conseguenze che ciò comporta. In Yelling to the Sky non mancano gli ingredienti tipici di molte pellicole black. Lo stile sporco e sgranato proprio di tanto cinema indie veicola un contenuto fatto di degrado, abusi, sopraffazioni, alcolismo, droga e festini a base di sesso e rap. Niente di nuovo sotto il sole. L'unica scelta parzialmente originale - scelta mutuata dal vissuto della regista - è quella di inserire l'elemento della multirazzialità nella famiglia di Sweetness, figlia di una coppia mista il cui genitore bianco si dimostra, però, perfettamente integrato nella comunità afro di cui è entrato a far parte. Non vi sono pecche recitative in Yelling to the Sky. Risultano piuttosto convincenti sia la perfomance della giovane protagonista Zoë Kravitz che quelle di Jason Clarke e Antonique Smith nei panni del padre alcolista e dell'affettuosa sorella maggiore. La rigidità riscontrata nelle perfomance è dovuta, semmai, alle incongruenze dello script che semplifica un percorso di formazione crudo e contorto inserendo svolte improvvise e repentini cambiamenti senza motivare alcunché. Scelte di vita che richiedono percorsi lunghi e dolorosi, come la disintossicazione dall'alcolismo o l'abbandono del giro dello spaccio gestito da gang, vengono liquidate in quattro e quattrotto con allarmante superficialità. Questo eccesso di schematismo cozza col realismo a cui è votata la pellicola impedendo allo spettatore di credere fino in fondo a ciò che sta vedendo e lasciandolo con l'amaro in bocca per un finale scontato e indebolito da una patina di fastidiosa ingenuità di cui, ci auguriamo, la Mahoney sia capace di liberarsi nel proseguio della carriera registica.La dolcezza che svanisce
In Yelling to the Sky lo stile sporco e sgranato proprio di tanto cinema indie veicola un contenuto fatto di degrado, abusi, sopraffazioni, alcolismo, droga e festini a base di sesso e rap.