È fondamentalmente una storia d'amore quella che Pietro Reggiani racconta nel lungometraggio, La dolce arte di esistere, nelle sale dal prossimo 9 aprile. Roberta (Francesca Golia) è una ragazza bisognosa di attenzioni, Massimo (Pierpaolo Spollon) invece non ama essere al centro dell'attenzione. Entrambi soffrono di una patologia, chiamata Invisibilità Psicosomatica, che li porta a scomparire qualora l'ansia prenda il sopravvento. Con uno stile parodistico e pregno di contemporanea poetica il cineasta veronese mette in scena un'avventura sentimentale, metafora del male di vivere dei giovani d'oggi che trova la sua matrice, secondo il regista, principalmente nel comportamento dei genitori.
Un reale paradosso
A 10 anni di distanza da L'Estate di mio fratello Reggiani quindi torna scrivere e a dirigere un lungometraggio dai candidi e favolistici toni che punta, però, a mostrare la veridicità di una condizione surreale e a trattare l'invisibilità come qualcosa di realistico, concreto, possibile. "L'idea di partenza nel film stava tutta nella voglia di raccontare un paradosso" spiega il regista "Mi piaceva poter parlare dell'invisibilità per paura o timidezza, che mi è molto vicina, e contrapporgli quella che deriva al contrario dalla mancanza di attenzione. Ma la scelta principale che ho fatto è stata quella di parlare dell'invisibilità come di una malattia psicosomatica, di un problema sociale, e di non trattarla come qualcosa di eccezionale. Volevo raccontare un percorso intimo, non una storia fantastica."
Dall'idea al Ciak
Non è stato facile per Pietro Reggiani realizzare La dolce arte di esistere la cui sceneggiatura era pronta già nel 2007. Il primo scoglio da superare per il cineasta è stato quello economico: "Ho capito che dovevo farlo con pochissimi soldi, altrimenti non l'avrei mai girato" ha detto Reggiani "Però non è stato facile, perché il mio copione richiedeva più di 70 location, e i tempi delle riprese erano stimati in 8 settimane, salite poi a 9, e questo ha ovviamente fatto salire i costi." Una volta messa in moto la produzione è subentrato un altro problema: come fare a tradurre in testi un'idea viscerale come quella dell'invisibilità psicosomatica? Fortunatamente, per merito degli attori, è andato tutto come doveva.
La stessa protagonista, Francesca Golia, ha raccontato: "Pietro è stato un regista ben più che minuzioso: ero davvero telecomandata da lui, che ha curato ogni respiro e ogni sguardo. Anche il copione era molto dettagliato, e io dovevo solo interrogarmi su quel che provavo per evitare l'effetto macchietta. Comunque, alla fine, ho realizzato il mondo di Pietro." E anche Reggiani si è detto entusiasta della lavorazione e del conseguente risultato: _"Sul set mi sentivo in sintonia con il film, quello che giravamo mi tornava, mi sentivo empatico con le scene e con gli attori. Devo dire che Francesca Golia e Pierpaolo Spollon sono stati bravissimi: perché il grosso del lavoro stava nella ricerca di quelle piccole espressioni che corrispondevano a sentimenti estremi e quasi sempre non spontanei, contro-intuitivi. Poi, al montaggio, che ho iniziato da solo, ridevo da solo per le battute e le situazioni buffe, ma ho incontrato delle difficoltà poiché mantere quell'equilibrio delicato non era facile. E allora mi sono rivolto a una professionista come Erika Manoni. I toni di questo film, surreale e realistico assieme, sono infidi."