Sono passati ventinove anni da quando David Byrne e Brian Eno realizzarono il primo importante esperimento di world music occidentalizzata: My Life In The Bush Of Ghosts. Due dei brani rivoluzionari contenuti in quell'album finirono nella colonna sonora di Wall Street, la pellicola diretta nel 1987 da Oliver Stone che valse a Michael Douglas l'Oscar come Miglior Attore Protagonista.
I due musicisti erano già personaggi di primissimo piano: Eno per essere stato membro fondatore dei Roxy Music e brillante compositore di ambient music, Byrne per aver concepito quella meravigliosa creatura denominata Talking Heads.
Oggi tutta la crew viene ricomposta per il sequel Wall Street: il denaro non dorme mai, e ritroviamo Stone in cabina di regia, Douglas davanti la telecamera, ed i due sperimentatori musicali alle prese con il commento sonoro. La coppia oggi propone un pop obliquo ineccepibile e piacevole, ma senza più quegli slanci che rendevano avanguardistiche le proposte di tre decenni fa. Brian Eno è relegato ad un ruolo secondario, senza più la voglia di imbastire trame elettroniche rivoluzionarie o arditi ricami negli arrangiamenti. Ma l'aspetto che lascerà delusi anche gli ammiratori di Byrne è che in questa colonna sonora non c'è assolutamente nulla di nuovo.
I cinque pezzi realizzati in coabitazione dal duo erano già tutti apparsi nello scialbo album a quattro mani pubblicato un paio d'anni fa: Everything That Happens Will Happen Today. Delle tracce a nome del solo Byrne, Sleeping Up è un (pur eccellente) ripescaggio dal soundtrack del 1999 In Spite Of Wishing And Wanting, mentre Lazy e Tiny Apocalypse erano nella tracklist di Grown Backwards, album da lui firmato, risalente al 2004.
This Must Be The Place (già inclusa nella colonna sonora del primo Wall Street) chiudeva invece l'album del 1983 dei Talking Heads Speaking In Tongues, quello che conteneva la hit Burning Down The House.
Forse Byrne ha voluto dare una seconda possibilità ad alcune sue composizioni, finora passate più o meno inosservate.
Nel complesso il disco si presenta fortemente omogeneo, e ben vi si innestano i tre brani strumentali firmati da Craig Armstrong.
Certo, al cospetto di cotanto genio, è sempre lecito aspettarsi qualcosa di più.