Ha molta ragione, Luca Zingaretti, quando scrive nelle note di regia del suo film d'esordio quanto "il dolore e la gioia sono fatti della stessa materia". Del resto, sempre secondo lui, La casa degli sguardi spiega quanto il dolore stesso sia in qualche modo propedeutico per arrivare alla felicità. O, almeno, sfiorarne l'idea, pur astratta nella sua forma e nel suo tono (c'è un'idea precisa di felicità? Crediamo di no, e non lo crede nemmeno il regista).
Potremmo quindi dire che il suo debutto, che si ispira liberamente al romanzo di Daniele Mencarelli (uno che con le parole ci sa fare), sia un film di resistenza (no, aberriamo e ci rifiutiamo di utilizzare il termine resilienza!), di ripartenza e di prerogative. Prerogative che Zingaretti porta in primo piano, facendo della vita vissuta (a fior di pelle) l'esatto stato emotivo di un protagonista destinato a fare breccia. In fondo, se il cinema italiano sembra aver scordato la normalità e le lotte della gente comune, La casa degli sguardi ci ricorda che le persone non sono personaggi, e che "anche i porelli hanno i sogni".
La casa degli sguardi: un vuoto da riempire
Il protagonista in questione è Marco (Gianmarco Franchini, che ritroviamo con piacere dopo la prova di Adagio), che ha vent'anni ed è accecato dal dolore per aver perso sua mamma. Sente tutto, Marco. È la parafrasi esatta di cosa voglia dire essere "empatici". Sente talmente tanto, che stordisce se stesso annegando le emozioni nell'alcol. Il vuoto, in qualche modo, bisogna riempirlo. Dall'altra parte, però, suo papà (Luca Zingaretti), che fa l'autista dell'autobus, non ci sta a vederlo morire poco a poco, e dunque lo manda a lavorare. Dove? Nella cooperativa di pulizie del Bambin Gesù. Qui, tradotte in una romanità che il regista ben conosce (avallata da un gruppo di ottimi co-protagonisti: da Federico Tocci ad Alessio Moneta, Cristian Di Sante, Chiara Celotto, Marco Felli, Riccardo Lai), Marco incontra e si scontra con tutte quelle emozioni che ha sempre combattuto.
La sensibilità rivista da Zingaretti: un'esordio che convince
Vedendolo, è palese quanto Luca Zingaretti abbia soppesato il tono del film (dimostrando di saperci fare), alternando diversi nuclei che, così come Marco con le sue emozioni, si aprono verso uno spazio emozionale in grado di alternare luce ed ombra (e la seconda parte, molto più calda, è anche la migliore). Nella sua semplice struttura, la storia, delineata dal regista in modo da portare ad un graduale aumento della tensione (una tensione intima, legata alle capacità di Marco di relazionarsi con una dimensione nuova) aiuta il pubblico ad entrare, poco a poco, in questo universo sconnesso, prendendo parte ad una storia diremmo di formazione, e aggraziata da un materiale umano che il regista sparge in modo intelligente, ammiccando ad una smorfia pronta a diventare un timido sorriso (rifacendosi alla dignità di certe figure del nostro cinema passato, da Germi a Citti).
Tuttavia, nella sua spina dorsale, e nell'adattamento del libro, il passo successivo sta nel riassumere, in modo non scontato, le personalità di una ragazzo sperduto, condannato a quell'empatia che non corrisponde (o non corrisponderebbe) al mondo che lo circonda. La casa degli sguardi, infatti, è un film che parla di persone buone, nel senso più puro del termine (e quelli buoni devono sempre lottare più degli altri). Un film che affronta l'amore tra un padre ed un figlio, specchiandolo poi nel mezzo salvifico dell'arte come sogno e come speranza (Marco si cura grazie alla poesia e alla scrittura). In contrapposizione al rispetto, implacabilmente nobile e vitale, del lavoro visto come strumento di crescita, identità, unione.
Più in generale, e con una manciata di sequenze che culminano tra i colori di un'alba romana (scelta visiva metaforica, capirete poi il motivo), La casa degli sguardi si riappropria del dramma come genere cinematografico, per renderlo invece punto di (ri)partenza. Identificando al meglio la necessità dell'uomo di risorgere, liberandosi di ogni inquietudine e accettando, finalmente, il valore delle emozioni. Tutto questo, se vogliamo, sottolineato da una sceneggiatura sensibilmente accessibile e volutamente lucida, e per questo già coerente rispetto all'occhio di un ottimo attore divenuto anche un ottimo regista.
Conclusioni
Persone e non personaggi. Semplicità e umiltà, tanto registica quanto narrativa. L'esordio di Luca Zingaretti funziona per il suo essere volutamente cinema popolare, che addotta un linguaggio in grado di arrivare dritto al cuore. La casa degli sguardi, che parte da un romanzo di Daniele Mencarelli, è quindi l'esempio di una normalità che lotta, al servizio di un dramma rigoroso eppure aperto e luminoso.
Perché ci piace
- La semplicità della scrittura.
- Il finale.
- L'umiltà, dote non scontata.
- Il cast a supporto: splenditi.
Cosa non va
- Il film, almeno all'inizio, sembra abbastanza indeciso.