La ballata di un piccolo giocatore, almeno dal punto di vista della sua prospettiva, è un buon film. O, almeno, è quantomeno accettabile secondo una grandezza direttamente inversa alle possibili aspettative. Diretto da Edward Berger e scritto da Rowan Joffé, nonché basato sul romanzo omonimo di Lawrence Osborne, sfrutta al meglio il luogo come personaggio principale che, nemmeno a dirlo, è la parte più interessante della pellicola.
Un personaggio tentacolare e opulento, palco di uno spettacolo in cui il vizio e la redenzione si mischiano, offuscando la dimensione e i colori (e i colori nel film sono fondamentali). Arrivato su Netflix dopo il passaggio al Telluride Film Festival, La ballata di un piccolo giocatore prova tuttavia a sintetizzare lo stato psico-fisico di un uomo consumato dalle proprie dipendenze attraverso un viaggio che punta (troppo) all'effetto e meno alla sostanza.
La ballata di un piccolo giocatore: quando la location fa la differenza
Edward Berger, che ben conosce le regole della tensione (vedi alla voce Conclave), sembra affidarsi totalmente alla presenza di Colin Farrell, immerso - letteralmente - nell'atmosfera satura e sudata di Macao, "la capitale del gioco d'azzardo". Farrell interpreta Lord Doyle, piacente britannico vestito di tutto punto, che barcolla tra un casinò e l'altro, distruggendo ogni suite in cui fa tappa. Sigaretta in bocca e bicchiere di Dom Pérignon in mano, Doyle è rimasto senza un soldo. I debiti però aumentano e le carte non girano. Lord Doyle, nei suoi sgargianti vestiti di velluto, si affida quindi alla cinese Dao Ming (Falen Chen), che lavora in un casinò, per trovare una via d'uscita prima che sia troppo tardi.
Un'ottima prova di Colin Farrell
La ballata di un piccolo giocatore è un film sulle ossessioni, sulla fallibilità, sulle dipendenze che consumano e stritolano. Un film sul denaro, e sulla possessione indotta dal desiderio e dalla brama. Funziona la trasposizione cinematografica dell'ansia e dell'incubo, anche grazie alla fisicità di Colin Farrell. Dall'altra parte c'è un viaggio in cui i miracoli non sono contemplati, e anzi sembrano quasi un miraggio in quella "terra strappata al mare" nel quale il gioco d'azzardo sembra indirizzare il futuro di individui miserabili. Per questo la cornice è, senza dubbio, l'elemento più importante del film. Anche grazie all'ottimo product desing, puntellato dalla fotografia di James Friend, contrapposta ad un croma che si ispira ai neon di Bruce Nauman. Notevole.
Il crollo della collettività in nome degli azzardi individuali
Lord Doyle è un uomo a metà, e il viaggio che intraprende - secondo la messa in scena di Berger - lo porta a scontrarsi con la cupidigia di una mentalità occidentale votata al successo. Un'identificazione sballata e pericolosa (e pure attuale, visto il crollo dell'identità collettiva in nome dell'individualità), che il protagonista finirà per scontare direttamente sulla propria pelle. Suggestiva allora la trasformazione (a tratti mostruosa) di Farrell alle prese con la distruzione di un uomo in fuga verso il "regno dei fantasmi".
Se la regia di Berger prosegue dritta (senza rinunciare ad alcuni momenti dalle sfumature oniriche), la scrittura sembra però divagare troppo. Troppo indecisa e troppo storta, nonché eccessivamente dispersiva. Di conseguenza il tono finisce per sfiammarsi, perdendo forza, inerzia ed essenza. Un difetto di costruzione, che si percepisce soprattutto nell'ultima parte (un'ora e quaranta di durata). Un mezzo peccato, insomma. Resta però ben impresso il bivio narrativo su cui si poggia La ballata di un piccolo giocatore: affidarsi all'imprevedibile destino o alle lucide scelte? Domanda che resta naturalmente sospesa, e che Berger rimette al giudizio insindacabile dello spettatore.
Conclusioni
Le ossessioni di un uomo consumato dall'azzardo, reso tangibile dalla prova fisica di Colin Farrell. Edward Berger adatta La ballata di un piccolo giocatore in un film al neon, che si regge sul protagonista e sulla location. Una Macao affascinante e sudata. Dall'altra parte, la scrittura perde di fuoco, facendo affievolire il tono. Sul fondo resta però un certo fascino, e pure l'aderenza della storia rispetto ad un'epoca votata al successo individuale. Costi quel che costi.
Perché ci piace
- Macao è un'ottima cornice.
- I colori scelti.
- Colin Farrell è sempre più bravo.
Cosa non va
- La scrittura sembra dispersiva...
- ... e il tono si sfiamma.