La ballata dell'amore ostinato
Nella Roma pariolina vive una coppia di coniugi felicemente sposati da ben venticinque anni. Per Lino e Chicca la quotidianità scorre serenamente, tra l'intesa sentimentale, la complicità raggiunta con l'età e il successo delle carriere professionali - lui giornalista sportivo, lei docente universitaria. Ma gli incontri coi parenti sembrano sempre ricordargli l'unica nota dolente: in una famiglia dove "fanno i figli come i conigli" l'assenza di progenie per i due è un cruccio tormentoso mai superato. Il loro piccolo mondo viene investito improvvisamente dal malessere quando scoprono che Lino ha il morbo di Alzheimer. La loro vita insieme diventa sempre più difficile e per Chicca la convivenza con l'uomo che ha sempre amato e che adesso pare irriconoscibile è dolorosa e pericolosa, ma scegliere da sola la strada migliore per entrambi non sarà affatto facile.
Ha le caratteristiche e i ritmi di una fiaba orientale l'ultimo film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza: il maestro, che continua a ispirarsi alle vicende personali della propria infanzia, mette in scena uno spettacolo dai colori autunnali, dalle tonalità calde e dal sapore nostalgico di fronte al quale si resta assorti come in un'estatica contemplazione. Ma come in tutte le opere del regista bolognese l'incanto non è mai assoluto e s'incrocia con contaminazioni cupe da horror dell'anima, con suggestioni estetiche che raccontano la storia per contrappasso. La ballata melanconica e romantica s'impregna così di tinte agresti con gli onirici flashback del protagonista sullo sfondo di uno spettrale paesaggio bolognese. E lo sfondo familiare di una normalità borghese apparente, che riporta a certe descrizioni di Luchino Visconti, si scontra con l'amarcord di Lino-Avati, che, per nostra fortuna, non cede mai al languore. Come in The Others, che Una sconfinata giovinezza ricorda per l'angoscia e la tensione, ci aspettiamo la rivelazione di un terribile segreto, ma qui a trasformare la storia in un incubo crudele è la malattia, la regressione mentale che palesa una fragilità emotiva evocata dalla frase di Chicca all'inizio del film, "Un diario non serve quando sei felice". Con abilità visiva il nostro storyteller c'immerge progressivamente nelle atmosfere kafkiane di un decadimento commovente ma mai compassionevole. L'Alzheimer, descritto con autentica delicatezza e con pathos costante, diventa un oscuro labirinto psicologico: l'ostinazione si confonde con l'amore e il marito diventa quel figlio mai arrivato. Sulle tragiche note de "La caduta di Varsavia" di Chopin Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri catturano l'attenzione con le potenti interpretazioni di due ombre umane e sorreggono con destrezza un'intensa storia d'amore e dolore. I loro impressionanti sguardi nel vuoto rendono i protagonisti perfino più struggenti e li accompagnano con grande equilibrio all'inaspettato finale, un'incursione nel giallo che sapranno apprezzare di più i devoti fan del regista.