Il tempo della perdita e quello della natura tendono spesso a sovrapporsi: sono spazi di sospensione in attesa di ritrovare un'identità e ricomporre i pezzi di ciò che si è perso. L'opera prima di Federica Biondi, come potrete leggere nella recensione de La ballata dei gusci infranti, tende ad esplorare quel territorio allungandosi anche sul 'prima' del trauma. La cesura tra il tempo della vita e quello dell'assenza, l'attimo prima della catastrofe, diventa il cuore del racconto, un film sull'identità realizzato ai piedi dei Monti Sibillini in mezzo ai piccoli borghi dell'Appennino marchigiano devastati dal terremoto del 2016, a cui si ispira l'intera storia. Il film in sala dal 31 marzo è prodotto dalla Linfa Crowd 2.0, la piccola casa di produzione fondata dall'attore Simone Riccioni presente nella pellicola in doppia veste, come già successo per i precedenti Tiro Libero, La Mia Seconda Volta e Come saltano i pesci.
La storia: un componimento poetico in strofe
Girato nei loghi reali del terremoto (tra Arquata del Tronto, San Ginesio, Pioraco, Amandola, Fiastra) La Ballata dei Gusci Infranti è stato concepito come "un'antologia di storie": quattro episodi diversi (quasi dei corti) girati su set distinti nell'arco di un anno e in stagioni differenti per ben sei mesi da marzo a ottobre. La struttura come precisa la stessa regista, Federica Biondi, è quella di un "componimento poetico a strofe con un ritornello, un minimo comune denominatore". Lo suggerisce il titolo, abbastanza impegnativo e a tratti pretenzioso, anche se le intenzioni rimangono sincere a partire dal tentativo di definire gli ambienti rifuggendo il pericolo del ritratto cartolina. Ammirevole lo sforzo di scolpire sullo schermo l'attimo attraverso l'uso dinamico della macchina da presa, che si muove di continuo, plana sui boschi, gira attorno ai personaggi, insegue il vento fra gli alberi e il gorgoglio dell'acqua che fugge, e si insinua nella vita di quattro famiglie irrimediabilmente legate da un destino comune.
C'è Jacopo (Samuele Sbrighi), il matto del villaggio, che vagabonda citando Dante e che ha deciso di vivere ai margini, "in un guscio di lumaca" in mezzo alla montagna, nessuno riuscirà a portarlo via dalla casa a due ruote dove da anni si è ritirato; chi invece non potrà "mai diventare lumaca" perché ha dovuto imparare a non attaccarsi troppo alle case, è il giovane parroco africano (Miloud Mourad Benamara) appena arrivato in paese per gestire una piccola parrocchia. Jacopo non è l'unico a parlare con le terzine dantesche, lo fanno anche i suoi genitori Alba (Lina Sastri) e Dante (Giorgio Colangeli), un'attrice e un drammaturgo che incontriamo mentre provano le scene del loro ultimo spettacolo, una rielaborazione del Paradiso di Dante. E poi, poco distante, c'è Lucia (Paola Lavini) con la sua fattoria, una donna abbandonata dal marito e che si ritroverà a dover gestire da sola l'azienda; la sua quotidianità è scandita dai ritmi della campagna e dalle fatiche contadine: raccogliere le uova, dare il fieno ai cavalli, portare il bestiame al pascolo, sin dalle prime luci dell'alba.
Nel borgo vicino invece abita una giovane coppia, David (Simone Riccioni) ed Elisabetta (Caterina Shulha), alle prese con l'arrivo del primo figlio tra paure e inquietudini. In mezzo a questa normalità fatta di parroci e perpetue, silenzi, bar di paese e piccoli teatri, si fanno strada le prime sinistre scosse di terremoto, fino a quella definitiva e fortissima che squarcerà il "guscio" dentro il quale ognuno ha costruito la proprie prassi quotidiane. Da quelle macerie dovranno ripartire per ricostruire una parvenza di routine e recuperare l'identità perduta.
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La perdita, la ricerca dell'identità e lo smarrimento
Proprio gli strappi, la perdita e la fragilità della vita vorrebbero essere il cuore del film, che invece rischia di andare fuori fuoco, sbilanciato verso una prima parte che si dilunga eccessivamente nella presentazione delle storie. La frammentarietà voluta e ricercata dei quattro episodi distinti e separati - a cui solo la seconda parte del film restituirà un senso - finisce per generare nello spettatore una sensazione di iniziale incompiutezza e smarrimento. Mentre diverse stonature vengono dalla retorica dei versi danteschi recitati da alcuni dei protagonisti, dall'eccessivo didascalismo o dalla metafora esibita del guscio infranto, dell'identità violata dall'imprevisto, in questo caso la catastrofe del terremoto. Spiccano sul racconto la classe di Lina Sastri e Giorgio Colangeli, ma anche la misura del resto degli interpreti, che fanno di tutto per essere credibili anche quando le battute non lo permetterebbero così facilmente.
Conclusioni
Concludiamo la recensione de La ballata dei gusci infranti ribadendo nel complesso l’apprezzamento verso il coraggio di un’opera prima che osa e si spinge oltre il racconto retorico. C’è un’idea chiara e precisa di regia, c’è una gestione del tempo della narrazione che punta sulla sospensione e sul ritratto dell’attimo, ma i problemi arrivano con qualche didascalismo di troppo e dall’uso ingenuo dei versi danteschi, che rischiano di interrompere in più di un’occasione la naturalezza della narrazione.
Perché ci piace
- Un racconto sull’identità e sul senso della perdita.
- La narrazione di un tempo sospeso e l’abilità di fotografare l’istante.
- Un ritratto del territorio che rifugge il pericolo dell’immagine da cartolina.
Cosa non va
- Una prima parte che indugia eccessivamente nella presentazione delle quattro storie protagoniste.
- La scelta di un racconto “antologico” per sua natura frammentario rischia di disorientare lo spettatore: la sensazione è che non ci sia un collante, almeno fino alla parte finale che riesce invece a restituirgli senso.
- Alcuni momenti non si salvano dal didascalismo e dalla scelta ingenua delle citazioni dantesche, non sempre ben amalgamate al flusso dei dialoghi.