L'ultimo combattimento di Chen?
Il mito di Bruce Lee assume per l'intero popolo cinese un valore simbolico di capitale importanza, forse ancora più di quello dello stesso Mao Tse Tung. Ed è curioso che la Cina si trovi proprio quest'anno a celebrare due fondamentali ricorrenze: il sessantesimo anniversario della nascita della Repubblica popolare e il settantesimo compleanno del Piccolo drago. L'industria cinematografica cinese non poteva naturalmente mancare all'appello nell'onorare come si conviene entrambe le figure storiche, realizzando nel primo caso il kolossal The Founding of a Republic, e sfornando nel secondo caso un seguito ideale del film più mitico e sacrale di Bruce Lee: Dalla Cina con furore.
Al regista Andrew Lau (uno dei più prolifici autori di blockbuster hongkonghesi, alcuni realizzati in coppia con Alan Mak, tra cui la celebre trilogia di Infernal Affairs) è affidato dunque un compito ben gravoso: riportare in vita uno dei personaggi più idealtipici dell'iconografia di Bruce Lee, quel Chen Zhen che agli albori del Novecento aveva tenuto alto l'onore della nazione cinese, combattendo contro gli avversari nipponici per onorare la morte del proprio maestro. Nel film originale era un fermo-immagine enigmatico a congedare le avventure di Chen, lasciando comunque intendere che l'eroe di Shangai sarebbe andato incontro a morte certa per mano dell'esercito nipponico. Invece questo nuovo sequel, Legend of the Fist: The Return of Chen Zhen, immagina che Chen abbia combattuto in incognito durante la Seconda guerra mondiale e in seguito si sia costruito una fittizia identità per meglio fronteggiare gli invasori giapponesi e sostenere la resistenza clandestina del popolo cinese. Chi è un fanatico dell'immaginario cui ruota intorno l'universo del Piccolo drago non potrà che rimanere deluso dalla poca attinenza con cui Andrew Lau rispolvera le coordinate del genere classico del gongfupian. Questo perché Legend of the Fist: The Return of Chen Zhen non è quasi per nulla un kung fu movie (nonostante Andrew Lau da giovane abbia lavorato alla Shaw Brothers con maestri delle arti marziali del calibro di Lau Kar Leong) , ma si tratta piuttosto di un pastiche di generi che meticcia film di guerra, noir spionistico, melodramma e persino il cinema dei supereroi, dal momento che Chen si nasconde addirittura sotto le spoglie di una sorta di "vendicatore mascherato" (il cui costume omaggia palesemente Kato, personaggio interpretato da Bruce Lee nello storico telefilm americano The Green Hornet). Lo stile registico è quello cui ci ha abituato ormai da un decennio a questa parte la Nuova Hollywood di Pechino: costosissime produzioni patinate, piene di effetti speciali, stilizzate e ricche di un cast strabordante (qui, oltre al campione di arti marziali Donnie Yen che aveva in passato già vestito i panni di Bruce, ci sono anche la diva Shu Qi e l'istrionico Anthony Wong). Ovvero tutto il contrario del pauperismo programmatico dei film di Bruce Lee, autentico "eroe del popolo", che poteva contare solo sullo straordinario potenziale cinematografico del proprio corpo. Si assiste a un parziale risveglio di Chen soltanto nell'ultima sequenza di combattimento del film ambientata nel dojo giapponese, quasi una ripresa letterale di quella originale. Qui torna, anche se per un fugace attimo, tutta l'iconografia di Bruce Lee: la lotta a torso nudo con il nunchaku, i celebri urli durante le acrobazie marziali. È come se il mito insistesse per emergere e impossessarsi ad ogni costo del film. È morto Bruce, viva Bruce!