Sette anni dopo il successo di Train de vie, Radu Mihaileanu torna al cinema con la toccante storia di Schlomo, un bambino etiope costretto a mentire per sopravvivere e a lottare per diventare un uomo, lontano dalla sua vera madre, ma accarezzato dall'affetto di una nuova famiglia. Quella di Vai e vivrai è anche una lucida fotografia degli ultimi 20 anni di storia di Israele, dei suoi conflitti interni e del suo confronto con il popolo etiope che ha abbandonato la propria terra per sfuggire la carestia, affrontando un viaggio massacrante per giungere in Terra Santa. Radu Mihaileanu e Sirak Sabahat, interprete del protagonista Schlomo nella fase più adulta, ci raccontano come è nato il film e qual è oggi il concetto di casa per chi è stato costretto ad abbandonare il proprio paese.
Signor Mihaileanu, come nei suoi precedenti film, anche in Vai e vivrai ritroviamo il tema dell'impostura, della menzogna a fin di bene. Come mai? Radu Mihaileanu: Essenzialmente per due motivi. Il pubblico mi conosce col cognome Mihaileanu, ma in realtà il mio vero cognome è Buchman. Mio padre fu costretto a cambiarlo durante la guerra, per sfuggire ai campi nazisti. Io ho vissuto positivamente tutto questo, tuttavia persiste in me un conflitto tra queste due identità e in tutto quello che faccio c'è un punto di vista duplice: fuori sono Mihaileanu, ma dentro resto Buchman. Il secondo motivo è legato al fatto che sono dovuto fuggire dalla Romania durante la dittatura di Ceausescu e mi sono rifugiato in Francia, ma lì mi considerano uno straniero perché ho l'accento rumeno, e d'altra parte in Romania mi dicono che sono francese perché ormai abito a Parigi e ho acquistato l'accento francese. Oggi la mia unica casa sono i miei bambini.
Sembra quasi che questo suo sentimento di "non appartenenza" le permetta di essere più internazionale quando racconta certe storie. E' così? Radu Mihaileanu: Mi sono accorto di aver fatto film su storie specifiche, ma con un linguaggio universale. Questo forse è legato al fatto che al centro dei miei film c'è sempre il tema dell'identità che è specifico della cultura ebraica, ma al tempo stesso appartiene a molti di noi, a tutte quelle persone costrette ad abbandonare il proprio paese portando dentro tanta sofferenza, ma anche quell'umorismo essenziale per superare i momenti difficili.
Dopo l'enorme successo di Train de vie sarà stata tanta la pressione su di lei? Radu Mihaileanu: Se c'è una cosa che è cambiata dopo Train de vie è che ora riesco ad ottenere più facilmente i finanziamenti per i miei film, ma è sicuramente vero che è aumentata la pressione. Dopo un film di successo può capitarti di pensare di aver capito tutto, ma non è così. In questi anni ho scritto vari copioni, ma non sono andati a buon fine e il cestino di casa mia si è riempito fino all'orlo. Non sento l'urgenza di fare un film dietro l'altro. Viviamo in un mondo che ci bombarda di immagini, ma a me interessa raccontare una storia solo quando penso che sia veramente buona. Mi piace parlare di cose che mi stimolano e che mi portano a conoscere altre persone.
Nel film si parla del problema dei Falasha, gli ebrei etiopi costretti dalla carestia ad abbandonare il proprio paese, condotti in Terra Santa nel 1984 grazie ad un'iniziativa dello stato di Israele e degli Stati Uniti, denominata operazione Mosè. Come mai le è venuta voglia di raccontare questa storia? Radu Mihaileanu: Ho scoperto questo problema quando ero a Los Angeles per presentare Train de vie. Una sera mi sono ritrovato a cena seduto per caso accanto ad un signore ebreo etiope che mi ha raccontato la sua epopea, il suo viaggio a piedi fino al Sudan dove tutti gli ebrei erano in pericolo di morte, l'accoglienza dei rifugiati in Israele. Questo incontro mi ha commosso e mi ha cambiato la vita. Ho iniziato a prendere visione di tutto il materiale pubblicato sui Falasha e ho conosciuto tanti ebrei etiopi, così è nato il film.
Quali difficoltà ha incontrato nell'affrontare gli ultimi venti anni della storia di Israele? Radu Mihaileanu:: Ho passato cinque anni in ricerche, documentandomi su Israele, ho incontrato tante persone, etiopi ed israeliani, e ho raccolto le loro testimonianze. Non puoi farti un'idea di ciò che accade in Israele unicamente leggendo i giornali o guardando la televisione, perché spesso tutto è rappresentato attraverso cliché, attraverso immagini semplicistiche del conflitto coi palestinesi che raccontano di Israele come una potenza militare forte che va nei territori per uccidere i bambini. Il mio intento non era quello di fare un film di propaganda, ma riportare la realtà di Israele trattando l'aspetto umano. La società israeliana, come tutte le società del resto, non ha un unico punto di vista, non sono tutti razzisti ed estremisti o tutti buoni e solidali. Ci sono opinioni diverse su ogni cosa, come in qualsiasi altra società, ma bisogna ammettere che la maggior parte degli israeliani ha accolto gli etiopi a braccia aperte, a parte una piccola minoranza come i rabini ortodossi, secondo i quali le persone di colore non potevano essere ebree. Penso inoltre che israeliani e palestinesi siano entrambi vittime che non riescono ad uscire da questo conflitto nel quale, in realtà, non riescono più a riconoscere un nemico. Forse tutti abbiamo l'idea che Israele sia un popolo di destra e che i palestinesi siano tutti di sinistra, ma non dobbiamo dimenticare che prima della guerra del Libano gli israeliani erano di sinistra. Ci sono opinioni estremiste sia da un lato che dall'altro. Ho voluto che la famiglia che nel film accoglie Schlomo fosse di sinistra perché così potevo esplicitare, attraverso le figure del padre e della madre, il conflitto interno alla società israeliana tra chi vuole lasciare il paese per evitare che i propri figli diventino soldati e chi vuole restare per non lasciare il potere in mano ai falchi che vogliono la guerra.
Nel suo film è presente con forza la figura della madre, che in questo caso non è una sola, ma sono tutte le donne che si prendono cura di volta in volta del piccolo Schlomo? Radu Mihaileanu: Il mio desiderio voleva essere fare un film sulle madri. Vai e vivrai è un po' una versione etiope di ET: Schlomo guarda la luna e vuole tornare a casa. E' un film su quattro madri che salvano il loro bambino, e tra queste includo anche la fidanzata di Schlomo che nel momento in cui gli darà un figlio diventerà un po' anche sua madre. Per me è una metafora del mondo in cui viviamo: se guardiamo la mappa geopolitica del nostro mondo vediamo tanti posti in guerra, dove le donne non contano nulla. Schlomo è il nostro mondo, che ha bisogno di essere accudito e salvato dal cuore grande delle madri.
Signor Sabahat, com'è stato il suo rapporto con Mihaileanu e quanto si è identificato nel protagonista di Vai e vivrai? Sirak Sabahat: La storia della mia vita è vicina a quella di Radu: entrambi abbiamo dovuto abbandonare il nostro paese e lottare per sopravvivere. Sul set ci capivamo subito, senza dir niente, perché il nostro dolore è molto vicino. Nel 1991, a dieci anni, ho dovuto lasciare l'Etiopia insieme alla mia famiglia e affrontare un viaggio verso Addis Abeba che è durato un anno. Se ripenso a quel viaggio ho ancora gli incubi perché nel tragitto ho visto tanta gente ammalarsi e morire o arrivare da sola alla meta dopo aver seppellito tutti i propri cari. E' per questo che laddove vedo la sofferenza entro in empatia. Quando la madre cristiana affida il figlio a una donna ebrea, capisci che la religione viene dopo, perché questa è l'unica maniera che lei ha per salvarlo. Questa cosa ci da speranza perché è una decisione presa col cuore, non con la mente.
Cosa ha significato per lei l'arrivo in Israele? Sirak Sabahat: Quando abbiamo lasciato l'Etiopia lo abbiamo fatto non solo per sfuggire la carestia, ma anche per la fede, con la sicurezza che saremmo arrivati nella nostra terra, la Terra Santa, alla quale appartenevamo. Una volta giunti in Israele per noi è stato uno shock perché ci siamo trovati di fronte case ed elettricità, piccole cose che ai più sembreranno normali, ma che per noi, che non le avevamo mai viste, erano qualcosa di sconvolgente. E' stato difficile per gli israeliani accettare questo arrivo di ebrei di colore etiopi: non capivano la nostra cultura come noi non capivamo la loro e quindi c'è stata la necessità di uno scambio reciproco. Una volta arrivati in Israele abbiamo dovuto imparare cose che non sapevamo fare, come per esempio leggere e scrivere. Oggi le cose vanno molto meglio e tanti giovani etiopi sono iscritti all'università e conducono una vita dignitosa senza mai dimenticare le proprie origini, ma il problema è che ci sono tante persone anziane e per loro è più difficile perché sono rimaste profondamente legate alla loro terra. Io però sono molto ottimista e penso che le cose siano destinate a un continuo miglioramento.
Com'è stato accolto il film dagli israeliani? Sirak Sabahat: Quando tre giorni fa abbiamo presentato il film a Or Yhuda ero molto nervoso, perché proprio in quella città si è verificato recentemente un brutto episodio di razzismo: il sindaco ha deciso di impedire ai bambini etiopi di frequentare la scuola perché sosteneva che questi avrebbero abbassato il livello culturale. Io penso che il razzismo sia la malattia di questo secolo e le persone di quella città non avevano fatto nulla per impedire al sindaco di fare ciò che ha fatto. Dopo che è finito il film, però, quasi tutti piangevano e alla fine in molti sono venuti da me a scusarsi o a dirmi semplicemente "grazie a te ho capito".
Cosa vuol dire per voi oggi patria? Radu Mihaileanu: Odio la parola patria perché mi ricorda troppe guerre, troppi morti in suo nome. La patria è una cosa astratta e io preferisco ragionare in termini di esseri umani. Non sono legato ad alcuna patria, ma alla Francia, a Parigi, dove ci sono tutte le persone che amo, all'Italia, dove mi sento a mio agio, all'Africa, dove sono entrato in contatto con tante persone che mi hanno toccato profondamente, e poi ancora al Sud America e all'Asia, anche se non le conosco moltissimo. Per me l'ideologia è una prigione, ed io preferisco tenere aperte porte e finestre, per arricchire ed essere arricchito dagli altri, in un continuo scambio.
Sirak Sabahat: Per me il problema dell'identità è qualcosa che dovrò affrontare per tutta la mia vita, anche se dopo aver visto tanta sofferenza le domande filosofiche sull'identità e sulla patria diventano secondarie secondarie. La mia casa è Israele, ma dopo tanta sofferenza ho capito che la cosa che conta veramente è la famiglia, perché dovunque io mi trovi so che la mia vera casa è nei loro cuori.