Recensione Attenberg (2010)

Attenberg è un piccolo film sperimentale che scava nella psiche di personaggi eccentrici e contraddittori, capaci di oscillare in continuazione tra ambiguo mutismo e debordanti confessioni private.

L'educazione sentimentale ai tempi della crisi

Le passeggiate sghembe sull'impiantito del cortile insieme all'amica Bella, i documentari naturalistici di Sir David Attenborough e la musica dei Suicide sparata a tutto volume, per Marina, sono un antidoto sufficiente a compensare la sgradevolezza dell'umanità. Le cose, per lei, cambieranno quando il padre/compagno di giochi morirà e nella sua vita entrerà un attraente sconosciuto che la sfiderà a biliardino. Attenberg (il titolo è una storpiatura del cognome del naturalista inglese Attenborough) è un piccolo dramma antropologico, opera seconda della regista greca Athina Rachel Tsangari. L'eccentrica pellicola intreccia con disinvoltura temi come la scoperta del sesso, i legami familiari, l'amicizia, la morte e la crisi - personale e globale - facendo uso di un linguaggio minimalista e grottesco che denuncia l'influenza di certo cinema indipendente americano (Cassavetes su tutti), ma anche del primo Jarmush e di Aki Kaurismäki. I personaggi si muovono su uno sfondo squallido e amorfo che niente ha a che vedere con la Grecia solare da cartolina, ma che amplifica il senso di degrado a cui il padre di Marina fa riferimento nelle sue tirate sulla fine del ventesimo secolo.

A stemperare il senso di morte (quella reale, del padre di Marina, e quella metaforica, dell'adolescenza della ragazza interrotta dalla sopraggiunta maturità e della scoperta del sesso) ci pensa il tono surreale che domina la pellicola. Marina comunica col padre e con l'amica Bella attraverso giochi linguistici, scioglilingua, imitazioni di versi animaleschi e ridicole pose. La disinibita Bella costituisce, inoltre, terreno fertile dove fare esperienza in previsione delle prime vere esperienze sessuali. Per rivendicare la propria autorialità Athina Rachel Tsangari calca la mano sull'effetto straniante, imponendo ai suoi interpreti una recitazione a tratti statica e poco naturale a tratti espressionistica, e facendo un uso contrappuntistico delle musiche. A interrompere il ritmo della diegesi ci pensano le ridicole marce delle due amiche nel cortile (una sorta di letimotiv che contiene al suo interno una serie di variazioni) e le immagini sgranate dei documentari di Attemborough che Marina e il padre guardano in tv.
Pur misurandosi su un tema - il superamento della soglia che separa l'adolescenza dalla maturità - non particolarmente originale - Attenberg si distingue per la sua natura sperimentale, per la capacità di scavare nella psiche di personaggi eccentrici e contraddittori che oscillano in continuazione tra ambiguo mutismo e debordanti confessioni private. Non mancano momenti di grande verità (la naturalezza con cui viene mostrata la scoperta del sesso da parte di Marina è una delle cose migliori del film), ma a lungo andare la ripetitività delle situazioni e le stranezze della protagonista rischiano di stancare. Per fortuna la regista provvede a riprendere il controllo della storia con un finale lucido e controllato che impedisce al film di andare alla deriva.

Movieplayer.it

3.0/5