L'amore ai tempi dell'acciaio
Un gruppo di adolescenti di una cittadina del sud degli Stati Uniti d'America, si stringe attorno a una feticista e inconsueta passione per le armi da fuoco e prende a vivere una dimensione parallela di clandestinità in cui esprimersi al di fuori delle convenzioni sociali. Ma arriverà, presto o tardi, il momento di tornare a confrontarsi col mondo.
Il film di Thomas Vinterberg e Lars Von Trier si configura a prima vista come un romanzo di formazione, un tragico percorso di crescita di un gruppo di ragazzi che prendono coscienza, quasi per caso, delle contraddizioni e dei dolori del loro tempo.
Partendo da una condizione genericamente perdente, dalla rabbia informe e confusa del reietto, causata dalla diversità, dall'emarginazione, dalla miseria, i Dandies (questo il nome della congrega) elaborano una forma di resistenza conformista al mondo che li affligge, appropriandosi di uno dei suoi miti fondanti, quello delle armi, e ammantandolo di un sistema di valori che avvertono ormai irrimediabilmente compromesso all'esterno. Il pacifismo armato, l'uso alternativo delle armi come forza deterrente capace di infondere sicurezza e diffondere terrore. La politica e l'attualità si fondono con il dramma esistenziale.
Da una parte c'è il dato reale, il lato concreto delle cose: l'anatomia meccanica dell'arma con le sue caratteristiche tecniche, la traiettoria percorsa dalle pallottole disegnata sul fotogramma, il disagio socialmente contestualizzato dei giovani losers nei confronti di una società che sembra non accorgersi di loro. Dall'altra c'è il lato tragicomico, allegorico, surreale: la personificazione di un pezzo di metallo oggetto di sentimenti amorosi, il travestimento grottesco da bric-a-brac, la dispersione di energia e di emotività in un ambito assurdamente ristretto che non lascia spazio a nessuna relazione affettiva autenticamente convenzionale.
Emozioni verosimili (anche se solo cinematograficamente) applicate a materie artefatte, realtà banale oggetto di un'emotività parossistica. Vinterberg costruisce il suo gioco formale sfruttando con arrembante disinvoltura un ricco repertorio di stereotipi stilistici e narrativi (la voce off, l'uso del ralenti, i richiami a un immaginario eroico a metà tra il western e il noir) sia in chiave citazionista che ironica ma sempre con ammirevole e programmatica sincerità. Non si tratta infatti dell'ennesimo gioco di recupero post moderno; i personaggi sullo schermo hanno vita e umanità. Vita e umanità che resistono a una sceneggiatura che sembra violentarli, la consueta lucida ferocia di Von Trier e dei suoi esperimenti sociali (ancora una volta un gruppo di persone vittime delle loro fascinazioni più perverse), ancora più terribile quando applicata a dei ragazzi e ai loro sogni.
La messa in scena è meticolosa, la ricostruzione degli ambienti puntigliosa, il controllo dello spazio totale (in questo ricorda molto da vicino Dogville). La fotografia di Anthony Dod Mantle (Dogville) è straordinaria nel donare una geometria sovrannaturale a un mondo sporco e confuso, con inquadrature sghembe, trame di oggetti in primo piano, precisi fasci di luce, abili giochi coloristi, magistrale e misurato uso della steadycam. Grande la prova di tutto il cast.
Dietro una facciata di critica sociale e di satira di costume, parimenti efficace e innegabilmente presente, (stupisce tuttavia la totale incapacità di gran parte della stampa USA ad andare al di là di una lettura del film come un Bowling a Columbine d'autore, un ennesimo attacco al secondo emendamento) c'è un film raffinato e poetico che esalta le qualità dei due cineasti danesi, a celebrazione di un sodalizio artistico, redditizio e concreto come poche volte capita di vedere.