Recensione Under the Hawthorn Tree (2010)

Se per i primi tre quarti di film il tono resta comunque abbastanza misurato, tenendo a freno la naturale tendenza del soggetto a richiamare la lacrima facile, nell'ultima parte la sceneggiatura cede definitivamente a un melò esplicito e di grana grossa, con un'evoluzione della storia intuibile e tutta tesa a un'emotività d'accatto e di facile presa.

L'amore ai tempi del maoismo

Durante la Rivoluzione Culturale, la giovane Jing, internata in un campo di lavoro a causa delle convinzioni politiche del padre, conosce Sun, un ricercatore intelligente e idealista, figlio di un ufficiale dell'esercito. La ragazza deve lavorare duro e studiare per ripagare le colpe del padre e poter accedere così a un posto di insegnante, necessario per il sostentamento dei fratellini e della madre malata. Nonostante questo, tra i due giovani scoppia un amore fatto dapprima di semplici sguardi, poi di una vicinanza sempre più intensamente ricercata da Sun, che sembra inconsapevole del rischio a cui espone la ragazza e le sue aspirazioni lavorative. Ma Sun, mosso da passione e ingenuità, coinvolgerà Jing in un rapporto delicato ma intenso, che avrà il suo centro nell'albero di biancospino sito sulla collina in cui i due si sono conosciuti, simbolo della Rivoluzione che si trasformerà nell'emblema del loro sentimento reciproco.

Dispiace scrivere male di un regista come Zhang Yimou, autore che riveste un'importanza fondamentale nella storia del cinema cinese mainland, e che chi scrive ha difeso anche (pur con i dovuti distinguo) nella sua svolta wuxia che ha regalato al pubblico le raffinatezze cromatiche di Hero, La foresta dei pugnali volanti e del più complesso La città proibita. Che il premiato regista di Lanterne rosse abbia da tempo assunto un atteggiamento più morbido nei confronti del regime, in precedenza duramente avversato, è un fatto noto e risaputo, ma siamo costretti a rilevare che con questo Under the Hawthorn Tree, Zhang ha definitivamente oltrepassato la linea che separa un autore semplicemente compiacente da un vero e proprio regista di regime. Tratto da un romanzo di Ai Mi, il film restituisce un'immagine incredibilmente edulcorata e assolutoria di una tragedia come la Rivoluzione Culturale, portando avanti un'operazione di rimozione ideologica talmente smaccata ed esplicita da risultare indigesta anche allo spettatore meno attento. Per chi ricorda i lividi, potenti affreschi politici di opere come La storia di Qiu Ju e Vivere!, la giravolta del regista appare totale e consapevole, ma non per questo maggiormente giustificabile.
In ogni caso, se è vero che un film costruito come difesa o manifesto di un regime politico parte in sé gravato da un serio limite di base, bisogna anche rilevare che, in questo caso, lo sguardo di Zhang risulta pesantemente standardizzato, neutralizzato non solo nella sua capacità di analizzare criticamente la realtà, ma anche di costruire una narrazione di storie private che possano risultare credibili e coinvolgenti. Il film vive di metafore, come quella principale dell'albero, basilari e di facile comprensione per lo spettatore occidentale, mentre la love story tra i due protagonisti ha i crismi di un amore adolescenziale scontato e risaputo, non aiutato nemmeno dalla statica recitazione del protagonista maschile Dou Xiao. La ragion di stato e di famiglia che fa (blandamente) di tutto per tenere lontani i due giovani, una madre severa ma in fondo comprensiva verso una passione pura e innocente, un umorismo affidato alla macchiettistica presenza dei due fratellini della ragazza, il tutto confluisce in un affresco zuccheroso e poco pregnante, a cui non giova nemmeno una poco incisiva fotografia.

Se per i primi tre quarti di film il tono resta comunque abbastanza misurato, tenendo a freno la naturale tendenza del soggetto a richiamare la lacrima facile, nell'ultima parte la sceneggiatura cede definitivamente a un melò esplicito e di grana grossa, con un'evoluzione della storia intuibile e tutta tesa a un'emotività d'accatto e di facile presa. Una conclusione dopo la quale è lecito chiedersi se il regista citato nei titoli di testa sia davvero lo stesso autore noto in tutto il mondo con quel nome, o un semplice omonimo che cerca a tratti, scolasticamente, di imitarne lo stile. Un passo falso che stupisce e rattrista, quindi, ed è singolare che una manifestazione come il Far East Film Festival abbia scelto proprio questa pellicola, probabilmente la peggiore dell'intera carriera del regista, per "introdurre" (virgolette ovviamente d'obbligo) il suo nome ai suoi spettatori. Prima di gridare all'autore perso, comunque, e considerate anche le sue immediatamente precedenti, e non disprezzabili, regie, è comunque d'uopo aspettare e valutare, senza pregiudizi, i suoi prossimi lavori.

Movieplayer.it

2.0/5