In Kiddo riconosciamo la luce, i personaggi, le sporcature, il formato, il paesaggio. C'è tutto. Abbiamo già sentito e visto, in quei road movie che odorano di sudore e cibo spazzatura, di terra umida che si spalanca verso l'orizzonte senza confini, portando ad una catarsi emotiva e rivelatoria. Insomma, la base di ogni narrazione cinematografica, da John Ford in poi. Un immaginario chiaro e vivido, il tratto d'istintivo di un cinema indie delicatamente poggiato sopra i sogni (e gli incubi) dei protagonisti. Funziona, eccome se funziona. Mai troppo drammatico, mai troppo affievolito, incredibilmente luminoso nella sua geografia decadente, dove la frontiera emotiva diventa quella geografica: vecchie strade, motel bisunti, confessioni a cuore aperto.
Conosciamo il mondo di Kiddo, lo abbiamo visto e lo abbiamo adorato innumerevoli volte, tramutando la ricerca della libertà in utopica favola. Ciononostante, fin dal primo frame, ci siamo innamorati del film dell'olandese Zara Dwinger, che ha alle spalle diversi cortometraggi e un mediometraggio, The Girl Who Was Cursed. Perché, se è importante cosa dici, è ancora più importante come lo dici. Si può essere originali anche quando l'omaggio si fa quasi copia carbone, perché sono le emozioni che dettano i giri, che reggono il valore del racconto. Qualunque esso sia.
Se la Polonia sembra il Missouri
Se di panorami si tratta, Kiddo per vocazione immagina la Polonia come se fosse il Mid-West americano: un immaginario riassunto nella storia della piccola Lu (Rosa van Leeuwen), che di sua madre ricorda l'odore di arance. Lu vive in una casa famiglia in Olanda, mangia i cereali, guarda i vecchi cartoni animati in tv. La mamma, Karina (Frieda Barnhard), dice di essersi trasferita a Hollywood. Un giorno, però, come una stella cadente, ricompare a bordo di una vecchia automobile, portando addosso i segni dei giorni di gloria ormai dimenticati.
Le due, senza un soldo, si mettono in viaggio verso la Polonia, dove è nata Karina. Un viaggio di scoperte, di sonorità, di occhiali vintage, di parrucche e di conti non pagati. Un viaggio immaginato e un viaggio reale, l'Europa vestita d'America, il presente che si finge passato. Un viaggio di traumi passati e di smorfie che sembrano sorrisi, di serpentelli e di orsacchiotti enormi, di canzoni alla radio, di citazioni (c'è Bonnie e Clyde, ma anche Liza Minnelli in Cabaret). Il punto di vista è quello di Lu, ma la storia è universale: una madre, una figlia e la benzina che finisce.
Dusty Springfield, un orsacchiotto, una mamma e una figlia
Con semplicità e visione, Kiddo è un film distratto, sbilenco e splendente; un film che si concentra sugli ultimi, sulle stelle che cadono, sull'immaginazione che accende l'anima. La regista ri-crea un immaginario ben preciso (la fotografia di Douwe Hennink è tra i punti di forza), e su questo struttura il film. Tra squilibri e grana grossa, mentre i colori saturi citano gli on the road per antonomasia (c'è tutto: da Paris, Texas a Thelma & Louise, fino a Little Miss Sunshine o Grandma), il film d'esordio di Zara Dwinger - presentato al Giffoni Film Festival 2023, dopo il passaggio alla Berlinale - è un'opera circolare di situazioni riconoscibili, eppure meravigliosamente e meticolosamente unite tra loro attraverso le parole, le immagini, la musica.
Tanto meticoloso che, ad un certo punto attacca You and Me di Penny & The Quarters, ovvero un vecchio brano degli Anni Settanta finito nell'oblio e riscoperto da Ryan Gosling nel suo dramma Blue Valentine, tra le references estetiche e narrative di Kiddo. Infatti, Zara Dwinger, che ha scritto il film insieme a Nena van Driel, mette in scena un panorama in cui potersi perdere e in cui potersi riconoscere, seguendo le tracce di un posto nell'universo dove l'immaginazione possa finalmente essere realtà. E lo fa grazie ad un cinema ispirato, che resta addosso, che si può magicamente toccare. Kiddo, allora, è un film in cui poter sognare di essere come Bonnie e Clyde, cantando Stay Awhile di Dusty Springfield con i finestrini aperti, prendendosi una rivincita verso quel mondo spietato e oscuro, urlandogli addosso tutto l'amore possibile. Un colpo di fulmine, più che un grande film.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Kiddo, il film di Zara Dwinger si rifà ad un immaginario ben preciso, portando in superficie la favola di una madre e di una figlia che, attraverso un viaggio in macchina, provano a cercare il loro posto nel mondo. Una cornice indie che conosciamo, risultando però efficace nell'ideale cinematografico della regista olandese. Grande soundtrack, tra Dusty Springfield e un vecchio brano dei Penny & The Quarters.
Perché ci piace
- L'estetica.
- Il paesaggio.
- Il rapporto madre-figlia.
- Il road-movie funziona sempre...
Cosa non va
- ... l'immaginario generale, pur suggestivo, è già ampiamente battuto.