Io uccido, poi vado in onda
George Clooney ci prova come regista. Una moda, ormai, a Hollywood. Dopo l'ebbrezza del primo piano, del sorriso stampato sulla locandina, gli attori vogliono passare dietro la camera da presa e dirigerla, firmandosi registi. In alcuni casi il passaggio riesce, in altri meno. In Confessioni di una mente pericolosa, Clooney dimostra di avere un occhio non indifferente nel dirigere la macchina e dar corpo a una vicenda di cronaca così straordinaria, di per sé, da tradursi perfettamente in film. Comunque, bisogna specificare che il film non è tutta farina del suo sacco; la sceneggiatura, Clooney l'ha acquistata da Charlie Kaufman (sceneggiatore di Essere John Malkovich e del recente Il ladro di orchidee - Adaptation) e nell' impostazione delle scene si nota, se non la guida, almeno l'influenza dell'amico-regista Steven Soderbergh. Fatto sta che il film tiene incollati alla poltrona, per questo motivo preferiamo anticiparvi pochissimo della trama, il giusto per invogliarvi ad andare al cinema.
La storia è quella di Chuck Barris, creatore, presentatore e sovvertitore dei palinsesti televisivi americani. Barris, tra gli anni '60 e '70, ideò un filone di programmi televisivi votati al puro entertainment che ignoravano qualsiasi morale e solleticavano la natura più degradante dello spettatore. A lui si devono le formule adottate anche all'estero e in Italia, ad esempio, Il gioco delle coppie, La corrida e Tra moglie e marito. Show dove l'uomo comune si trasformava (e ancora si trasforma!) in protagonista televisivo, a patto che mettesse a nudo la sua privacy, la rendesse carne da macello per gli occhi di milioni di famelici telespettatori. Fin qui il film è una specie di cronaca e denuncia morale sul mondo dei media. Ma a dargli quel tocco in più, a renderlo una discesa negli inferi amorali e mentali del singolo uomo - il protagonista - e un vero e proprio thriller, ci pensa Barris stesso, con la sua biografia. Il mitico presentatore fu anche agente della CIA e come tale uccise su commissione. Tra audience, deliri di onnipotenza e omicidi, il film è un pieno di emozioni e di messaggi, tutti attualissimi: l'invasione dei media nella vita privata degli spettatori, l'invasione dello Stato (i servizi segreti) nella vita privata del singolo cittadino e la megalomania di un uomo che sceglie deliberatamente il male per sentirsi protagonista, sia dentro che fuori la televisione. La cosa incredibile di questa vicenda è che Barris è ancora vivo, un assassino a piede libero che, tra l'altro, ha firmato un libro (da cui è stato tratto il film omonimo) nel quale confessa di aver ammazzato 33 uomini per la CIA. E nel film fa una veloce comparsa!
Veniamo ora agli attori.
Clooney è regista, attore, ma non protagonista. Copre il ruolo di un agente della CIA che arruola Barris, cogliendo in lui l'istinto innato del killer. Parte poco impegnativa, Clooney la interpreta con la giusta sobrietà, senza sbavature. Ben più difficile il ruolo di Barris, psicotico a suo modo creativo, mente trash e geniale dello showbusiness e killer professionista per la CIA. Un simile personaggio, così poliedrico ed esuberante, implicava il rischio di una recitazione ai limiti del cabarettismo. Invece l'attore Sam Rockwell (già apprezzato dal pubblico italiano in Il miglio verde) riesce a interpretare il personaggio dotandolo di un'euforia e di una genialità sofferte, a tratti riflessive. Il film quindi appaga. È un corollario di tante scene, ognuna disgiunta dalle altre, giocata su primi piani che si allargano a descrivere un'ambientazione per lo più statica. Ogni scena è un'istantanea (l'influenza di Soderbergh) che, insieme alle altre, compone il grande affresco psicotico di un uomo che la stampa definì deleterio per la nazione americana e per la CIA. Una volta tanto, i giornali avevano visto giusto!