Recensione Viaggio in India (2006)

La verbosità del film toglie efficacia alle immagine, perché finisce con lo srotolarsi in una filosofia sempre più spicciola che logora la bontà del discorso.

In viaggio con filosofia

Una coppia di origine iraniana, fresca di matrimonio, celebra il proprio viaggio di nozze nell'India dei giorni nostri, alla ricerca di un fantomatico Uomo Perfetto che possa illuminare il proprio futuro. I due si presentano come una classica coppia di opposti che si attraggono: credente e sognatrice lei, ateo comunista lui. Lo scontro è tra chi riconosce in ogni piccolo evento della vita quotidiana un miracolo divino e chi ha preso coscienza dell'ingiustizia e della disperazione che governano il mondo. Questo differente atteggiamento nei confronti della vita si esplicita nel bisogno di maternità della donna e nel rifiuto da parte del marito di consegnare un nuovo essere ad un'esistenza dominata dal dolore. La ricerca di risposte ai grandi interrogativi che sembrano tormentarli spinge i due sposi al Viaggio in India del titolo (che stravolge e semplifica l'originale Scream of the ants, l'urlo delle formiche) che è anche una nuova possibilità per Mohsen Makhmalbaf, maestro del cinema iraniano che con questo film omaggia dichiaratamente il Rossellini di Viaggio in Italia, di riflettere sul mondo d'oggi perché l'uomo si risvegli da quello stato di torpore ed arrendevolezza che ha determinato la sua stessa rovina.

Il viaggio di Makhmalbaf parte bene e la sua estrema abilità di narratore viene fuori già dalle prime suggestive inquadrature, giocate tra il non vedere e il non sentire dei due protagonisti nella vastità del deserto, dove i binari sono dimenticati dai treni e i bambini cercano inutilmente di catturare un'ombra che si sposta di continuo. La donna è seduta al sole con gli occhi coperti da un guanto, l'uomo le sta dietro, in piedi, con le cuffie nelle orecchie. Il viaggio che animerà il confronto tra i due riproporrà fino al termine quella stessa situazione: lei che non riesce a guardare il monto intorno per quello che è, lui che non sa ascoltare chi la pensa in maniera differente e considera le verità degli altri inaccettabili presunzioni fasciste. Quando però la parola si impossessa del film, Makhmalbaf tira troppo la corda, finendo con lo sciupare in una sterile schermaglia tra disfattismo esagerato ed ottimismo della serie "Dio ci salverà" il suo infinito potenziale, il suo gusto finissimo nel comporre il quadro di corpi e luoghi altri che sfuggono al fascino da cartolina per abbracciare un realismo che è più incisivo quando non ha pretese antropologiche.

E' un continuo brontolio nichilista quello dell'uomo iraniano in terra indiana. Mentre lei del mondo che le sta intorno vede soltanto la bellezza e la magia di un paese che vibra di misticismo, lui non fa che rimproverarla, cercando di spalancarle con rabbia gli occhi su una realtà diversa, che fa testimoniare da una telecamera. Quello che vede, e che mostra alla moglie, è una situazione di disperazione e povertà, il fallimento del sogno pacifista di Gandhi, quella nonviolenza che ha favorito soltanto i più ricchi e ha impedito una rivoluzione che evitasse fame e sofferenze al 99% della popolazione indiana. Chiacchierone e ridondante, il film di Makhmalbaf sa accarezzare, ed insieme aggredire, gli occhi dello spettatore quando si ferma sui volti e sui corpi dei luoghi visitati. Lo sguardo dei bambini, sopra i sorrisi infantili, chiede continuamente aiuto, mentre le rughe sui visi dei più anziani, bruciati dal sole, sono scavate in profondità da una vecchiaia raggiunta in assoluta miseria. La verbosità del film toglie però efficacia alle immagine, perché finisce con lo srotolarsi in una filosofia sempre più spicciola che logora la bontà del discorso.

Oltre le due posizioni su cui si dibatte il film, Makhmalbaf inserisce verso la fine la mediazione relativista di un oratore di origine tedesca che di fronte al pensiero-manifesto dell'interlocutore iraniano ("il mondo è pieno di merda") tenta di illustrare come ogni realtà sia differente se considerata da singoli punti di vista, come possono essere quelli delle numerose religioni che il mondo conosce. L'aridità dei luoghi e dei pensieri della prima parte si apre alla vita nel finale, quando i due sposi raggiungono il Gange, nella città sacra di Benares, e tutte le ciance si sciolgono nelle acque purificatrici del fiume che rimandano ad un evidente bisogno di spiritualità. Il protagonista, che affermava che se Dio avesse voluto permettere all'uomo di credere in lui non avrebbe dovuto fornirlo di intelletto, deve fare i conti con una sacralità che in quei luoghi sembra divorare tutto il resto. E il film per fortuna si conclude prima che prenda quota l'idea dell'inevitabilità della salvezza divina che riscatti una triste esistenza.