Il sorriso squarciato
Molti dei film più noti di Takashi Miike ci hanno immerso nelle dinamiche degli yakuza eiga, cioè i film ambientati nell'universo della mafia giapponese. Questo filone, oggi ripreso e talvolta reinterpretato da molti registi contemporanei, si impose negli anni '60 e '70 grazie ad una nuova generazione di cineasti. Benché lontano dai rigorosi canoni della filmografia tradizionale, questo nuovo cinema fatto di antieroi e abbondantemente imbevuto di sesso e violenza, era estremamente popolare. La nuova guardia voleva urlare liberamente il senso di spaesamento e malessere trascinato dal dopoguerra, per questo molti giovani registi trovavano nelle gerarchie e nei severi codici della yakuza una chiave di lettura ideale per una società scossa dall'incontro/scontro tra la propria tradizione e l'invasione della cultura occidentale.
Certo oggi le premesse storiche e culturali possono essere diverse, ma non vanno per questo tralasciate quelle che sono le possibilità offerte dal genere nella messa in scena di caratteri e conflitti. Inoltre Miike, nei suoi lavori migliori, ha dimostrato di sapere bene che il cinema di genere (in questo caso gli yakuza eiga, o gangsters movie o noirs, come li si voglia chiamare) permette, all'interno di trame non sempre necessariamente differenziate tra loro, diverse soluzioni narrative.
Alla base di Ichi the killer c'è il manga Koroshiya 1 di Hideo Yamamoto (solo omonimo del noto direttore della fotografia al fianco di Miike anche per questo film), autore di culto all'estero ma conosciuto in Italia solo per la recente pubblicazione di Homunculus; un plot semplice che vede da una parte Kakihara (un biondissimo Tadanobu Asano), yakuza dal viso sfregiato alla disperata ricerca del proprio boss scomparso in circostanze misteriose insieme ad un mucchio di soldi, e dall'altra Ichi (Nao Omori), un giovane timido ma dalla personalità disturbata che lo trasforma in un killer capace delle più atroci carneficine. Poca roba superficialmente, ci si aspetta giusto lo scontro finale tra i due killer una volta che Kakihara avrà scoperto che è stato Ichi a fare fuori il suo capo.
Ma, al di là delle apparenze, Ichi the killer è un film complesso e di non facile digeribilità, si presenta tale sin dalle prime frenetiche immagini di volti e vicoli dei quartieri di Tokyo. Il montaggio immerge immediatamente in un universo dominato da violenza e torture, rituali e massacri, in cui si intrecciano le storie di diversi bizzarri personaggi (nel cast anche Shinya Tsukamoto, nei panni del meschino Jijii) appartenenti a quel mondo parallelo, governato da leggi proprie e complesse gerarchie, che è quello degli yakuza. Sarà anche vero che il buon Miike è un regista che non si prende troppo sul serio, sta di fatto che la chiave ironica e il disturbante iperrealismo con cui ci viene raccontata questa storia regala un'indagine di estrema acutezza sulle possibili sfaccettature della natura umana.
In fondo Ichi the killer è un film che parla d'amore oltre che di morte; i meccanismi che si instaurano tra ricerca del dolore e piacere, tra sofferenza e necessità di appartenenza, rendono quasi indecifrabili i personaggi ma restituiscono allo stesso tempo tutta l'ambiguità dell'animo umano. E quale modo migliore per raccontare un enigma come l'anima se non il caos di una grammatica cinematografica istintiva, priva di leggi e confini, come quella di Miike? Certo non si potrà mai dire che un cinema come il suo sia adatto a tutti, ma se si fosse in grado di andare un po' oltre alle apparenze si potrebbe scoprire quanto ipnotico e intenso possa rivelarsi il lavoro di questo regista ancora troppo poco conosciuto nel nostro paese.