Sono passati sei anni dal suo ultimo film, il controverso Dream House disconosciuto dallo stesso regista per disaccordi con la produzione sul montaggio finale della pellicola, che non rispecchiava la sua idea originaria. Ne sono trascorsi ventiquattro invece da quel capolavoro assoluto che è Nel nome del padre con Daniel Day-Lewis, e oggi Jim Sheridan torna a parlare ancora una volta di famiglia, identità e giustizia. Lo fa con Il segreto, presentato all'ultima Festa del Cinema di Roma, un melò che riporta il regista a girare in Irlanda, adattando per il grande schermo il romanzo di Sebastian Barry. È la storia di Rose (Vanessa Redgrave), un'anziana donna rinchiusa da cinquant'anni in un ospedale psichiatrico per avere commesso, nell'Irlanda conservatrice e ultracattolica degli anni '40, un unico crimine: innamorarsi ed essere bella e desiderabile. Il dottor Stephen Grene (Eric Bana) tenterà di ricostruirne il passato e fare chiarezza attraverso i suoi diari, le pagine di una vecchia Bibbia alle quali una giovanissima Rose (Rooney Mara) ha affidato i propri ricordi.
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Dal libro al grande schermo
Nel romanzo tutto accade nella testa della protagonista, Rose. Che tipo di cambiamenti ha dovuto portare nel passaggio sul grande schermo?
Ho dovuto comprimere un passato che si espande per oltre 100 anni in un solo anno, ho invece mantentuo analoga la vicenda ambientata nel presente. Ho anche cambiato molto della storia sullo sfondo, potremmo dire che ci sono almeno dieci storie diverse e non una. Ho chiamato Sebastian, l'ho avvisato delle modifiche e gli ho fatto un sacco di domande. In generale è molto difficile prendere una storia che si svolge nella mente dei personaggi e renderla in un film.
Perché ha deciso di raccontarla? Cosa l'ha colpita?
Il rapporto madre e figlio, il fatto che lei non lo avrebbe mai lasciato e che allo stesso tempo però si potesse pensare che fosse stata proprio lei a ucciderlo. Il film riflette in parte anche alcune esperienze della mia vita: mia nonna morì durante il parto e io stesso ho perso un fratello.
Come ha lavorato con le due attrici?
Sono molto diverse. Vanessa è una forza della natura con una grande volontà, sa quello che vuole e il pericolo è che metta in ombra gli altri; Rooney invece è piu calma e riservata e rischia di mettere in soggezione le persone con cui lavora. Non è stato facile dirigerle e mettere insieme il loro lavoro; con Rooney credo di aver fatto pochissimo, la lasciavo improvvisare perché ha un suo modo di procedere, sa bene quello che vuole fare e non accetta cambiamenti.
Con questo film ha aggiunto un'ulteriore riflessione sulla famiglia e la giustizia, tema sempre al centro dei suoi film. Perché?
Quando ero bambino i miei genitori avevano un B&B, ed è come se con i miei film avessi sempre tentato di ricostituire un nucleo familiare che non ho mai avuto. Quando sono cominciati i primi problemi con l'arrivo dei profughi al Nord mi sono poi ritrovato a riflettere sul senso di giustizia e di identità.
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L'integralismo cattolico in Irlanda
Rose è vittima di un sistema religioso, ma anche sociale...
La presenza della Chiesa in Irlanda è sempre stata opprimente. Padre Gaunt nel romanzo è un uomo anziano, legato al passato e molto conservatore, io invece ho deciso di ringiovanirlo e farlo innamorare di Rose senza che venisse ricambiato, condizione necessaria a comprendere in qualche modo tutto il male delle sue azioni. Ci sono uomini che hanno scelto la via della castità e che poi si ritrovano a fare cose strane per frustrazione, azioni che appaiono in genere inspiegabili se a compierle sono degli anziani: ho pensato quindi che un uomo giovane, bello e virile potesse aiutare il pubblico a capire meglio quella follia.
Una delle battute del film fa riferimento a una "malattia delle persone che smettono di vedere la verità"...
È stata una di quelle frasi che Vanessa ha avuto più difficoltà a pronunciare, ma è vero. Sono cresciuto in un'epoca in cui l'oppressione della Chiesa in Irlanda era sotto gli occhi di tutti, ma fu presa la decisione di non vedere. Molte persone fanno finta di non vedere, ma quando si decide di ignorare la verità siamo tutti complici; dipende in un certo senso dalla nostra distanza e da quanto la verità possa mettere in pericolo la nostra sopravvivenza. Accettare una menzogna è spesso un modo per controllare l'altro, si rompe una catena della comunicazione; è lo stesso funzionamento delle società militari.
È stato spinto a raccontare l'identità del suo paese in quanto irlandese o è il cinema ad aver abbracciato le problematiche dell'Irlanda?
Mi è sempre interessato il modo in cui l'Irlanda si è cacciata nei guai. Il tema dell'identità mi sembra un argomento ancora oggi avvincente e credo che con il passare del tempo si sia legato sempre di più a quello dell'identità sessuale. La lotta di potere è simile nei meccanismi a quella tra uomini e donne, adottata dalle persone per sopravvivere: ogni volta che ci sono stati problemi con l'Irlanda, ci sono stati anche problemi di natura sessuale.
La bellezza di Rose viene punita perché deve scontare in qualche modo la sua desiderabilità. Crede che sia un atteggiamento di cui le donne non si sono ancora liberate?
Pare proprio di sì. Il solo essere donne sembra una colpa, basta pensare ad Adamo e Eva - è lei la tentatrice - o a Elena di Troia, colpevole di aver dato via a una guerra. È solo un modo diverso di usare la logica del sistema binario quando le cose si complicano: 1 e 0, maschio femmina, credo e non credo. Quando tutto diventa complicato serve semplificare e trovare un capro espiatorio.
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Bilanci
Che lezione ha imparato da cineasta?
Che è fondamentale avere sempre qualcosa di importante da dire. Fare film è faticoso, fare quelli hollywoodiani ad esempio è molto diverso e mi sono reso conto di quanto sia diffcile realizzare delle pellicole su una società nella quale non si è cresciuti. In futuro invece voglio essere sempre più vicino a me stesso in tutto ciò che faccio. Mi interessa sapere cosa pensano le persone, perché se vuoi essere un gran regista bisogna sempre sapersi collegare al subconscio della gente e non pensare di dover essere dei tiranni.