Nel 2007 il minatore di origine bosniaca Mehmedalija Alić la cui storia è raccontata nel film Il segreto della miniera, scopre uno dei segreti più oscuri della recente storia slovena: nella miniera di Huda Jama, dove era stato inviato per un'ispezione prima che il tunnel venisse definitivamente sigillato, dopo due anni di lavoro rinviene i resti di 4000 profughi uccisi alla fine della Seconda Guerra Mondiale dai vincitori e nascosti nelle viscere della miniera, perché venissero semplicemente cancellati dalla storia. Una pagina controversa che le autorità slovene preferirono lasciare nell'oblio.
La storia di Alic e la sua lotta per la ricerca della verità e di una giustizia sociale, diventano un film, di cui abbiamo parlato nella recensione de Il segreto della miniera, sulla memoria e sul senso di responsabilità collettiva. In patria la pellicola (nelle sale italiane dal 31 ottobre) ha suscitato non poche polemiche, su cui la regista Hanna Slak cerca in questa intervista di fare chiarezza.
Una storia universale: tra mito e realtà
Hai detto che questa storia ti ha chiamata. Cosa ti ha attratto dal punto di vista cinematografico?
Quella di Alija è la storia dell'eroe mitologico: penso a Prometeo che si addentra nell'oscurità per poter poi portare la luce, ad Antigone che lotta per seppellire suo fratello, o a Persefone che si inoltra negli inferi per salvare sua figlia. La nostra cultura è piena di racconti sul mito e mi sembrava una storia archetipica da poter raccontare in questo film. La miniera inoltre è un posto molto interessante da filmare e raccontare: è ampissima, ma anche molto stretta e mi affascinava l'idea di riprendere dei corpi da questo punto di vista. La vera ragione però per cui ho deciso di girare Il segreto della miniera, è un'altra: quando ho ascoltato la voce di Alija raccontare la sua storia, ho capito che poteva guarire anche molti miei conflitti interiori.
Poteva essere terapeutica, ma mi infastidiva che venisse strumentalizzata dal punto di vista ideologico e politico: quella di Alija non è né la voce dell'odio né della partigianeria, ma è la voce di un uomo, dell'empatia, della compassione, dell'andare oltre e ricostruire. La regia mi ha permesso di condensare questa storia e renderla intellegibile al più ampio pubblico possibile, meritava di essere ascoltata.
Avete lavorato in un ambiente angusto come la miniera. Avete fatto dei sopralluoghi in quella originaria?
Non abbiamo potuto né voluto girare nella vera miniera, che è un luogo di lutto, ne abbiamo scelta invece una aperta al turismo e munita di strutture che ci hanno aiutato molto dal punto di vista logistico. Per renderla il più possibile simile alla miniera originaria è stato necessario però un grande lavoro di scenografia e di arredamento. La miniera è un luogo inusuale in cui girare, le possibilità di movimento sono ridotte, puoi andare solo avanti o indietro; ho lavorato con un ottimo direttore della fotografia, Matthias Pilz, e sin dall'inizio abbiamo voluto usare le vere luci che i minatori hanno sul loro elmetto e utilizzare delle camere a mano, in modo che lo spettatore potesse sentire la visceralità e la corporeità di questo lavoro. Stavamo molto vicini al corpo e alla fisicità degli attori.
La scrittura, l'amicizia con Mehmedalija Alija e le polemiche in patria
In che modo il tuo rapporto con Alija ha influenzato il processo di scrittura?
Nella fase di scrittura e ricerca precedente al film lavoravo con Alija alla scrittura della sua autobiografia, quando siamo passati alla forma filmica abbiamo dovuto affrontare un lavoro diverso. Insieme abbiamo fatto un viaggio durato sette anni durante i quali molte cose sono cambiate nel mondo e nelle nostre vite. Lui e la sua famiglia sono stati i primi spettatori del film, siamo diventati amici e abbiamo lottato insieme perché la storia venisse alla luce.
Quali generi ti hanno ispirato?
Sono affascinata dai registi che riescono a sfiorare il genere senza però andarci dentro fino in fondo. Vengo dalla tradizione art house, anche se questo film ha degli aspetti che ricordano il thriller e il mistery; non volevo però che fosse un film di genere.
In Slovenia il film ha scatenato delle polemiche. Come mai?
In realtà il film ha avuto molto supporto dalle persone e le reazioni del pubblico sono state meravigliose, dopo ogni visione ci sono sempre stati bellissimi dibattiti e la gente si è sentita libera a volte di raccontarmi le proprie vicende personale e più intime. Volevo dare a tutti un linguaggio per raccontare cose altrimenti difficili o inimmaginabili, cose su cui gravava ancora una specie di veto.
Lo spettatore comune ha avuto una reazione calorosa, le critiche più feroci sono invece paradassolmente arrivate dai critici e dagli intellettuali: quelli con un background di sinistra mi hanno accusato di aver fatto un film di propaganda di destra, chi aveva invece idee di destra mi ha accusato del contrario. È stato strano per me che vengo dal cinema d'essai ricevere critiche da quegli stessi intellettuali che in genere sono vicini a questo tipo di film meno facili per lo spettatore comune e trovare calore invece nel pubblico che generalmente trova le opere d'essai un po' più ostiche.