La paga è buona ma il posto è isolato, tanto che sembra disperso nel nulla. Altri punti a sfavore? Le attenzioni maschili sono forse un po' troppo invadenti, considerando tutto. Un mantra che conoscono bene le backpacker occidentali, quando si affacciano nell'emisfero australe alla ricerca di un lavoretto per pagarsi da bere. Eufemismo (e generalizzazione) a parte, l'Australia rivista da Kitty Green (essa stessa è australiana) non è, diremmo, il posto più ospitale del mondo. Tuttavia, il settimo Continente si conferma perfetto per essere raccontata al cinema, facendo del paesaggio un vero e proprio personaggio.

Lo dicevamo fin dai tempi di Bianca e Bernie nella terra dei canguri, lo confermiamo con Il Royal Hotel, passato con discreto successo al Telluride Film Festival del 2023 (ma anche alla Festa del Cinema di Roma 2024) e arrivato adesso in streaming su Netflix. Piccola parentesi: perché non dare maggior risalto ai film non originali, che meriterebbero molta più attenzione? Domanda implicita, chiaro, ma funzionale nel sottolineare un assunto non banale: le piattaforme streaming, per chi cerca un barlume di qualità, sono ancora capaci di offrirla. C'è da spulciare bene, però.
Il Royal Hotel: l'altra faccia dell'Australia

Come detto, il landscape affascina, ma il benvenuto non è dei migliori, anzi. Hanna (Julia Garner) e Liv (Jessica Henwick), stanno attraversando l'Australia zaino in spalla, ma sono rimaste a corto di denaro. L'unica soluzione è ricorrere ad uno dei tanti programmi lavora-e-viaggia. Volenti o nolenti, accettano di lavorare come bariste per "qualche settimana" al Royal Hotel, un sudicio pub disperso nel desertico outback. Il proprietario, Billy (Hugo Weaving), è gretto, avvinazzato, irrispettoso ma intellettualmente onesto, la moglie Carol (Ursula Yovich) non è la donna più affabile che ci sia nonostante abbia il cuore buono, e pure la clientela abituale è alquanto respingente. Come se non bastasse, la piscina è a secco d'acqua. Ma il vero problema sembra essere Dolly (Daniel Hanshall), ubriacone molto più viscido di un serpente.
Tossicità maschile e tensione somatizzata

Declinazione del punto di vista maschile sulla donna (più che tossico, diremmo velenoso), il sessismo latente, e pure disinvoltamente smaccato. Quello di Kitty Green, co-scirtto insieme a Oscar Redding, è un horror ad occhi aperti se l'etichetta di thriller psicologico, oggi, sembra ormai abbastanza abusata, e ben poco adiacente rispetto al film in questione. Con una curiosità: l'ispirazione arriva da un documentario, Hotel Coolgardie diretto da Pete Gleeson. Per certi versi, la placida evoluzione ricorda proprio l'andamento di un reportage sul campo, applicando ad esso una sorta di ombra che si allunga, giocando con il concetto di atmosfera. Fin da subito, infatti, capiamo che attorno al luogo ronza qualcosa di strano, tanto che la regista sceglie di costruirci attorno ogni personaggio.

Tutti i maschi del posto sembra attirati da Hanna e Liv (ma entrambe rispondono diversamente, pur resistendo in mezzo alla tempesta) creando così un climax narrativo in cui la tensione si miscela all'odore stantio di alcol, polvere e sudore. Il Royal Hotel, dunque, nella logica dello spazio scenico e del tono narrativo si prende il suo tempo per far decantare l'angustia e l'esplosività di una storia destinata ad infiammarsi (tuttavia, ci mette diverse scene in eccesso), mostrando le vere facce dei protagonisti, pur rifugiandosi in una didascalia che, a volte, spezza un potenziale cinematografico sicuramente lucido, ma anche un po' troppo somatizzato.
Conclusioni
Il Royal Hotel di Kitty Green è un buon film, capace di giocare sull'atmosfera, la tensione, i personaggi, la location. Un ottimo casting, e una buona intuizione. Certo è, la tensione stessa, scena dopo scena, pur crescendo, sembra troppo soffocata, facendo perdere la lucidità di un potenziale narrativo di forte impatto.
Perché ci piace
- Un ottimo casting.
- La location.
- La tensione.
Cosa non va
- ...Forse un po' troppo somatizzata.
- Mai davvero incisivo.