Recensione Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus (2006)

Non basta lo sguardo anticonvenzionale di Shainberg a fare di Fur quello che avrebbe voluto essere, ovvero fastidioso e indimenticabile come i freak di Diane Arbus.

Il risveglio del genio

Quello di Steven Shainberg, come si ripete incessantemente in fase di promozione e come avverte un cospicuo disclaimer a inizio pellicola, è uno sguardo immaginario alla vita di un'artista; immaginario perché include nell'esperienza esistenziale della grande fotografa newyorkese personaggi e fatti che sono una rielaborazione creativa di quanto realmente avvenne, immaginario perché la Fondazione Arbus non ha concesso alla produzione del film i diritti per l'utilizzazione dell'opera della Arbus, e quindi Shainberg è costretto a chiedere all'immaginazione dello spettatore di provvedere a ricreare le immagini dolcissime e inquietanti di Diane, frutto del viaggio che il regista ha scelto di narrare.

La Diane Arbus che incontriamo all'inizio del film è una donna sofferente, richiusa nel casco per la messa in piega, rinchiusa in un austero palazzo newyorkese, rinchiusa in un abito che costringe il suo seno e la sua anima. Il suo talento in boccio è sprecato al servizio di un marito che dedica la sua arte a scatti che ritraggono modelle sorridenti in pose banali, vuote, prevedibili. A iniziare il processo di liberazione della personalità, dell'arte, ma anche della sensualità di Diane Arbus, sarò un incontro con un misterioso vicino di casa, un uomo dal volto coperto e dagli occhi di fuoco che Diane osserva giungere per la prima volta nello stabile. L'uomo è Lionel Sweeney, un uomo con un tragico passato da "fenomeno da baraccone": è stato sfruttato dai soliti individui senza scrupoli per la sua ipertricosi, che fa di lui una sorta di uomo scimmia. Lionel percepisce all'istante l'anelito di Diane, e tra i due nasce un'amicizia affettuosa e un percorso di conoscenza che, se da un lato riveleranno il dono di un'eccezionale artista, la sua capacità di vedere la bellezza, la saggezza, la forza nella diversità, dall'altro alieneranno la donna dagli affetti familiari.

Nicole Kidman profonde in questo nuovo ruolo biografico la consueta intensità ed eleganza; accanto a lei, un Robert Downey Jr. che non perde un briciolo di fascino anche ricoperto di un imbarazzante strato di peluria. Se il film fosse stato soltanto un duettare tra questi due grandi talenti sarebbe stato forse enigmatico, ma indubbiamente emozionante. Il problema del film di Shainberg è la sceneggiatura, che scivola nella stessa banalità che essa stigmatizza nel lavoro di Allan Arbus nel fare della vicenda del risveglio creativo di Diane Arbus una istruttiva favoletta metropolitana: l'impettita moglie e madre borghese ricca di famiglia che incontra l'affascinante straniero e scopre una nuova vita. Il tocco di Shainberg è presente, il suo estro è anticonvenzionale, anche se alcune scelte - come la metaforizzazione della liberazione spirituale della Arbus attraverso i capelli, che, raccolti a inizio pellicola, sono sempre più sciolti e spettinati con l'avanzare della narrazione - sanno troppo di già visto: e questo non può essere sufficiente a fare di Fur quello che avrebbe voluto essere, ovvero fastidioso e indimenticabile come i freak di Diane Arbus.

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3.0/5