Raggiunto il successo internazionale nel 2017 grazie al bel Una donna fantastica - che ha pure conquistato l'Oscar per il miglior film straniero -, il brillante Sebastian Lelio torna dietro la macchina da presa in post-Covid e distribuito da Netflix per un nuovo e sorprendente dramma. Si intitola Il Prodigio ed è l'omonimo adattamento cinematografico del romanzo scritto da Emma Donoghue - anche co-sceneggiatrice della trasposizione -, una storia ambientata nell'Irlanda del 1862 ancora in preda alla Grande Carestia. L'infermiera inglese Lib Wright (Florence Pugh) viene chiamata insieme a una suora in un piccolo e sperduto paesino della steppa per verificare l'attendibilità di quello che viene considerato un vero e proprio miracolo.
La piccola Anna O'Donnell (Kíla Lord Cassidy) sembra riuscire a sopravvivere senza mangiare da quattro mesi, richiamando a sé l'attenzione di giornalisti e fedeli, che vedono la casa degli O'Donnell come luogo di pellegrinaggio e la bambina come benedetta da Dio, praticamente una santa. Compito di Lib e della suora è quello di osservare Anna per tentare di comprendere come la ragazzina riesca a sopravvivere senza cibo e quale sia la reale natura di questo incredibile fenomeno; e come vedremo in questa recensione de Il Prodigio, anche quali i meccanismi più contradditori della fede e quelli più asettici di quella scientifica.
Lelio al suo meglio
Il cinema di Lelio è da sempre dedito a ritratti femminili di un certo spessore in grado di andare a scardinare concezioni retrograde della vita, dell'amore o - come in questo caso - religiose. Mediato dall'adattamento della stessa Donoghue, l'autore cileno dona la presunzione della verità alla mente scientifica, mettendo sotto la lente d'ingrandimento della stessa il credo cristiano e le sue ipocrisie per raccontare la faccia della medaglia più sporca e nascosta dei deboli e degli ultimi. Lo fa addossando l'intera responsabilità dell'opera sulle spalle di una sontuosa Florence Pugh, ormai habitué dei drammi in costume e qui profondamente in parte, tanto severa nell'atto dell'osservazione e del giudizio quanto dolce e sofisticata nel momento d'emozione e di reale confronto.
Sembra un ruolo cucitole addosso, se non fosse che questo viene prima su carta della stessa interpretazione, a testimonianza della bontà originale della scrittura del personaggio di Lib e della sua validità concettuale e morale. Il Prodigio è un film di chiaro-scuri tanto etici quanto estetici, d'interni bui e rarefatti e di esterni autunnali sporcati da un certo gusto lisergico della fotografia di Ari Wegner, che lavora sui contrasti dei verdi e dei gialli per dipingere un film più sul negativo che sul positivo.
Ci sono poi molte camere fisse con lente zoomate a stringere per dare l'impressione dell'analisi e dell'occhio scrutatore dell'autore - e dell'autrice - che scende nell'intimo più recondito dei protagonisti, a scandagliarli fin dentro le viscere dell'anima. Sembra spesso di trovarsi all'interno di un curioso miscellanea tra Goya e Turner, anche nelle carrellate a seguire o nei campi lunghi che accentuano anzi il valore più desolante e fascinoso dell'ambientazione. È un'opera di grande valore stilistico e formale che paga soprattutto pegno in un ritmo e in una costruzione narrativa che vorrebbe invadere più generi ma in verità incapace di fondo di generare tensione o malessere come vorrebbe.
Florence Pugh, ritratto di una piccola donna, grande attrice
Credere nelle storie
Dove la nuova fatica di Lelio si rivela audace è comunque nella capacità di costruire attorno all'adattamento di un romanzo già corposo nei contenuti un concept folgorante in termini intuitivi e meta-cinematografici. Incipit e conclusioni tengono alta l'argomentazione dell'opera secondo cui "non siamo nulla senza storie" e che "in questa bisogna sempre credere fermamente", proprio come gli attori fanno con i loro ruoli o come i fedeli con la parola di Dio. In questo senso, Il prodigio si interroga sulla validità delle storie che ci raccontiamo - soprattutto - e con quanta determinazione e abnegazione restiamo ad esse attaccati, rinunciando a seconda dei casi alla parte più logica o spirituale di noi stessi, arrivando addirittura ad alienarci dalla verità o dalla vita.
Questione di prospettiva e personalità che deve spesso fare i conti con grandi traumi psicologici del passato in grado di cementare la solidità del racconto che abbiamo di noi o che riceviamo dagli altri. La storia che ci raccontiamo è la nostra gabbia e noi gli uccelli che la abitano scegliendo con coscienza di farlo. Ma come l'illusione ottica del passero, siamo sempre noi a poter scegliere di evadere ed essere liberi, dentro o fuori a seconda di quanto realmente vogliamo credere alla favola che continuiamo a ripeterci ogni giorno. Questione di personalità e prospettiva, dicevamo, anche se poi quest'ultima è sempre quella di una nuova storia, di una nuova gabbia e di un altro credo.
Conclusioni
Il Prodigio di Sebastian Lelio si rivela un grande ritorno per l'autore cileno. Come scritto in recensione, il film è forte di ottime interpretazioni - su tutte di Florence Pugh - e di una cura formale ricercata in ogni dettaglio tecnico e cinematografico, votato a valorizzare e inquadrare l'opera nella sua essenza. Pure se compassato nel ritmo e nella durata, Il Prodigio riflette attivamente sull'importanza delle storie e sulla verità tra scienza e fede, giungendo anche a un'audace controcampo meta-cinematografico che eleva non di poco la concettualità artistica dell'opera.
Perché ci piace
- L'interpretazione di Florence Pugh, severa ed emozionante allo stesso tempo.
- La regia di Sebastian Lelio, idealmente ragionata per valorizzare storia e atmosfera.
- Tematiche e concept sono folgoranti e ben elaborate...
Cosa non va
- ... anche se il ritmo della narrazione gira spesso a vuoto e abbassa la soglia d'attenzione minima.
- Tanti ottimi caratteristi scelti per ruoli di futile spessore.