Tra i "mostri" che hanno popolato l'immaginario degli appassionati di horror negli anni '80, il Freddy Krueger creato da Wes Craven è sicuramente il più affascinante, quello con maggiori potenzialità di spavento e alla cui presenza sono legate più implicazioni, a diversi livelli.
Quando nel 1984 il regista di Cleveland diresse questo film, l'horror americano stava vivendo una stagione molto fortunata, con una nuova generazione di spettatori, perlopiù giovani o giovanissimi, che affollavano le sale per assistere alle gesta dei loro "eroi", resuscitati dai produttori film dopo film: così è stato per il Michael Myers creato da John Carpenter nel 1978 nel suo Halloween - La notte delle streghe, così per il sanguinario Jason Voohres protagonista della fortunata serie Venerdì 13 inaugurata da Sean S. Cunningham nel 1980, così sarà per il Leatherface dei vari Non aprite quella porta, creato da Tobe Hooper e assurto al ruolo di protagonista assoluto a partire dal secondo film della serie, datato 1986.
Dopo il tramonto
Il film di Craven, quindi, si inserisce perfettamente in questo redditizio filone, e anche il pubblico a cui si rivolge è sostanzialmente lo stesso. Eppure, il regista di Cleveland fa capire fin dall'inizio di voler andare più a fondo, di giocare con le paure dello spettatore a un livello diverso, di voler spaventare in modo duraturo, facendo leva su alcuni elementi propri della psiche umana, facilmente "attaccabili" una volta riconosciuti.
E' il sogno la "materia prima" su cui Craven costruisce la sua ricerca, questa misteriosa, affascinante costruzione della mente su cui tanto si è scritto e dibattuto ma di cui poco, effettivamente, ancor oggi si sa. Siamo di fronte a una costruzione del tutto originale, quindi, che in qualche modo riflette sui meccanismi del genere e li giustifica: l'horror è, infatti, nei suoi esempi più riusciti, null'altro che la lunga visualizzazione di un incubo, che porta lo spettatore in una dimensione onirica con pochi o nessun legame con la realtà. Da qui l'assenza di logica tipica del genere: non può esserci logica in un sogno, e questo Craven lo sa benissimo; le sequenze degli incubi sono infatti dirette e scenografate magistralmente, con luoghi diversi, interni ed esterni, che si alternano e si mescolano senza soluzione di continuità, riflettendo la confusione e il rimodellamento dello spazio che sono da sempre tipici dei sogni. Per la prima volta, quindi, il genere riflette su sé stesso e sulla sua stessa natura, che è da sempre onirica: siamo di fronte all'embrione di un discorso metacinematografico che si farà scoperto in Nightmare - Nuovo Incubo (1994) e verrà portato a definitivo compimento in Scream (1996). Unite a ciò, ci sono le implicazioni psicologiche legate all'atto del dormire, da sempre uno degli atti più naturali che si possano immaginare per un essere umano: si dorme per ricaricare la mente e il corpo e per riacquistare le forze.
Craven, invece, lega il sonno all'idea della morte (come fece già, prima di lui, lo scrittore Edgar Allan Poe: fu lui infatti che definì il sonno come "piccoli frammenti di morte"), e instilla nei suoi personaggi (e in particolare nella giovane Nancy) una paura terribile: se ci si addormenta si corre il rischio di non risvegliarsi più. Così, per sopravvivere, Nancy sarà costretta a forzare il suo corpo a non cedere al sonno, consapevole che, in caso contrario, insieme al sonno può coglierla la morte: quella stessa morte che arriva sotto forma del classico babau infantile, volto mostruoso e artigli affilati pronti a colpire, personificazione delle paure che noi tutti abbiamo provato da bambini.
I piccoli amici di Freddy
Ed è infatti una sorta di regressione all'infanzia quella che coglie i protagonisti, tutti adolescenti, che sono di nuovo bambini quando la luce si spegne, i genitori escono dalla stanza e la notte li inghiotte; così come sono infantili i riti che essi usano per tener lontano il male (il crocefisso e la classica filastrocca che i bambini recitano prima di addormentarsi: "now I lay me down to sleep, pray the lord my soul to keep. if I die before I wake, pray the lord my soul to take"). Questo succede perché è dalla loro infanzia che il mostro proviene, ed è come bambini che egli li avrebbe voluti: Freddy Krueger era infatti un maniaco assassino di bambini, che fu bruciato vivo dai genitori dei piccoli sopravvissuti.
Ed è questo un altro tema, fondamentale, del film: le colpe dei genitori che si ripercuotono sui figli. Nel tema del delicato rapporto genitori-figli durante il periodo dell'adolescenza, trattato non troppo velatamente dal film, gli adulti invero non ne escono troppo bene: la madre di Tina, infatti, porta a casa un uomo diverso ogni settimana e non si occupa della figlia; i genitori di Glen, fidanzato di Nancy, sono distratti e diffidenti verso la ragazza (specie il padre); i genitori della giovane protagonista, infine, rifuggono dalle proprie responsabilità quando iniziano a comprendere ciò che sta accadendo: incapaci di accettare la pur incredibile verità, infatti, e ancor più incapaci di fronteggiare le proprie colpe, i due preferiscono credere che la loro figlia sia vittima di qualche disturbo mentale, mettendo così ancor più a repentaglio la sua vita. Ma mentre la madre di Nancy si rifugia nell'alcool per non affrontare ciò che sta accadendo, la ragazza prende in mano la situazione, studia l'orrore, cerca i suoi punti deboli e alla fine lo affronta. Emblematica è, a questo proposito, la scena in cui Nancy bacia la madre, in preda ai fumi dell'alcool, e la rassicura poco prima dell'ultimo scontro con Krueger: è lei, in quel momento, la vera adulta, l'adolescenza è ormai dietro le spalle e l'orrore può essere affrontato alla pari.
Il finale del film, piuttosto convenzionale e apparentemente pensato solo per lasciare aperta la porta agli inevitabili sequel, è forse l'unico punto debole dell'intera pellicola: piuttosto prevedibile nel suo voler essere "a sorpresa", contraddice tutta la precedente costruzione della sceneggiatura, e le sue conclusioni. Nonostante questo piccolo (e forse inevitabile) difetto, siamo di fronte comunque a un film bello e importante, "adulto" nei temi e nelle implicazioni nonostante il pubblico a cui apparentemente è rivolto, sicuramente uno dei punti artisticamente più alti di tutto il filone a cui appartiene. Come è noto, gli innumerevoli sequel che seguiranno finiranno per snaturare il personaggio trasformandolo in un'innocua macchietta, ghignante, con la battuta sempre pronta prima di uccidere qualcuno, e sostanzialmente ridicola: bisognerà aspettare fino al 1994 perché Craven si riappropri della propria creatura, rendendo esplicito il "gioco" metacinematografico di cui si diceva e restituendo il personaggio alla dimensione che è gli è più consona: quella della paura e degli incubi, quindi del cinema horror. Quello che, sempre, sarà necessario per far sì che le nostre paure restino sullo schermo e non saltino fuori per travolgerci.
Movieplayer.it
4.0/5