Non poteva essere che Torino la città scelta per la proiezione in anteprima del documentario di Giovanni Piperno, Il pezzo mancante, un'opera che tenta di mettere a fuoco i misteri e i drammi della famiglia più amata e odiata d'Italia, gli Agnelli. Protagonista indiscusso del lavoro del regista romano è ovviamente Gianni Agnelli, l'enigmatico capitano d'industria che alla guida della Fiat ha tenuto in pugno l'economia italiana, il fascinoso tombeur de femmes, marito infedele ed impeccabile al tempo stesso, il padre incapace di comunicare completamente il proprio affetto per i figli. Eppure, al fianco di questo splendente Re Sole sono state tante, negli anni, le ombre che si sono addensate. A partire dalle vicende (sconosciute ai più) di Giorgio Agnelli, il fratello dell'Avvocato, scomparso nel 1965 in circostanze mai del tutto chiarite in una clinica psichiatrica della Svizzera, per finire con il suicidio nel 2000 di Edoardo, secondogenito di Gianni. Sono loro i pezzi mancanti di un puzzle costruito certosinamente su ricchezza e potere. Senza il supporto della famiglia Agnelli, troppo timorosa davanti alle curiosità di Piperno, l'autore capitolino ha creato un proprio percorso alla ricerca della verità, rivolgendosi a Gelasio Gaetani, nobile con il pallino del vino buono e soprattutto amico fraterno di Edoardo Agnelli, a cui viene affidato il difficile compito di raccordare presente e passato.
Giovanni, l'argomento che hai scelto di trattare non è dei più semplici. Perché gli Agnelli? Giovanni Piperno: E' una domanda a cui non so rispondere. Me lo hanno commissionato e nonostante la paura di non riuscire a portare a termine il progetto, ho accettato la sfida. Gianni e la sua famiglia sono stati importanti per la nostra storia.
E il palcoscenico del Torino Film Festival sembra quello più giusto... Giovanni Piperno: E' stato l'Istituto Luce a volere che il film fosse presentato qui e la scelta mi sembra totalmente giusta. Sono molto curioso di sapere come verrà recepito. Quelli che amano gli Agnelli non saranno contenti, così come quelli che li odiano.
Parlavi di paura di non poter finire il lavoro, cosa intendevi dire? Giovanni Piperno: Diciamo che sapevo che la famiglia non avrebbe collaborato, ma non come è successo in realtà. Io non faccio documentari storici, in genere mi occupo della vita delle persone e con loro stabilisco un patto di fiducia reciproca. Quindi dover raccontare una famiglia che non vuole essere raccontata è stato molto complicato, molto difficile.
Sei stato anche intralciato dagli Agnelli?
Pensi che ci sia una valenza politica nel tuo film? Giovanni Piperno: Direi proprio di no, io cerco di fare film pensando soprattutto agli spettatori, anche se, ahimé, i documentari non sempre vengono distributi in modo adeguato. Il mio primo obiettivo è quello di far emozionare, poi la politica è nelle cose, ma non posso dimenticare l'elemento spettacolare. Allora assieme a Giulio Cederna abbiamo pensato a cosa della storia degli Agnelli potesse essere forte per tutti, spingendo il pubblico a rivedersi in vicende apparentemente distanti dai comuni mortali. Alla fine abbiamo scoperto degli elementi ricorrenti perfino banali, nei rapporti tra padre e figli o in come venivano trattate le donne, per esempio.
Il caso di Giorgio Agnelli è a suo modo eclatante. E' stato cancellato dalla storia di famiglia, come se la sua esistenza non ci fosse mai stata. Fa sempre paura la malattia mentale... Giovanni Piperno: Non bisogna fare mea culpa, perché nessuno sapeva dell'esistenza di Giorgio Agnelli. E ancora oggi nessuno lo sa. Finché è stato vivo Gianni Agnelli non si era mai parlato di questo fratello. Se ne accennava di sfuggita in un libro francese, Agnelli - l'irresistibile, pubblicato prima della morte dell'Avvocato e poi subito ritirato dal mercato. Giorgio è diventato per noi il simbolo di tutte le cancellazioni. Spiace dirlo, ma la sua è una storia molto banale. Tutte le famiglie alto borghesi, diciamo fino agli anni '60, rinchiudevano i parenti con problemi psichiatrici nelle cliniche svizzere o di Milano, basti pensare al documentario di Alina Marazzi, Un'ora sola ti vorrei, in cui si narrava la storia della madre di Alina, anche lei morta suicida in una clinica psichiatrica. Il povero diavolo, invece, veniva spedito in manicomio. Al di là delle differenze di classe, però, il meccanismo ero lo stesso. E' altrettanto ovvio che quando si parla di famiglia Agnelli il tutto venga amplificato; il loro era un imperativo categorico legato alla necessità di mantenere l'azienda più importante d'Italia, ma questo è anche quello che ha fatto pagare loro un prezzo umano altissimo.
Cosa hai scelto di raccontare nel documentario e con quale stile hai voluto lavorare a questa storia?
Cosa ti ha lasciato questo percorso a livello personale? Giovanni Piperno: In questi tre anni di lavoro ho cominciato a fare un lavoro parallelo sulla mia famiglia. Ho cominciato a capire com'era morta mia nonna, che soffriva di problemi psichiatrici ed è deceduta abbandonata in una pensione di Roma, nonostante la sua fosse una famiglia ricchissima. Ho scoperto dei parallelismi tra il destino tragico di mia madre e quello di mia nonna. Quando uno si trova di fronte ad una famiglia così importante come gli Agnelli, l'unico modo per essere autentici e onesti e mettersi in gioco in prima persona. E' la chiave del successo di ogni buon documentario, che riesce solo quando si amano i propri personaggi.