Recensione Il miracolo (2003)

Il regista salentino, al suo terzo film, approda alla 60ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia con il suo "Miracolo", film che fino ad ora ha raccolto i pareri più contrastanti sia della critica che del pubblico.

Il miracolo della consapevolezza

Il regista salentino, Edoardo Winspeare, al suo terzo film (ricordiamo Pizzicata del 1995 e Sangue Vivo del 2000), approda alla 60ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia con il suo Il miracolo, film che fino ad ora ha raccolto i pareri più contrastanti sia della critica che del pubblico.
La critica in particolare non sembra essere d'accordo sullo stile utilizzato dall'autore (stereotipato? originale?) e sull'eventuale evoluzione o involuzione del giovane regista.
Innanzitutto un'evoluzione fondamentale c'è stata, ed è quella di raccontare una storia universale, di più ampio respiro rispetto alle prime due vicende di sapore strettamente "salentino".

Se Pizzicata e Sangue Vivo sono interamente recitati in dialetto leccese e descrivono il dramma dei personaggi (per lo più provenienti da classi umili e contadine) tormentati dal loro destino tragico legato alla loro terra così povera, e "liberati" solo dalla "Pizzica", ballo rituale salentino descritto con un gusto documentaristico in entrambi i film e abilmente musicato dalla banda "Officina Zoé" di cui lo stesso Winspeare è fondatore, Il miracolo è quasi interamente recitato in italiano, (l'unico a parlare in dialetto, questa volta tarantino, è un ragazzino divertentissimo, amico del protagonista) racconta una storia niente affatto legata alle tradizioni pugliesi ma simbolo della condizione umana contemporanea ed è stato girato in una città non salentina: Taranto, una città deturpata, stuprata e affascinante allo stesso tempo, simbolo del Sud in degrado (non necessariamente solo quello italiano...) e in generale della lenta devastazione del paesaggio naturale a favore della speculazione edilizia selvaggia e dell'abusivismo più sregolato.

In fin dei conti, al di là dell'intreccio molto semplice e a tratti scontato (quello dei presunti poteri miracolosi che un bambino crede di aver acquisito dopo essere stato vittima di un incidente), il film sembra voler superare con dei movimenti eleganti della macchina da presa le storie dei suoi personaggi, per mostrarci attraverso metafore il senso del loro disagio. Le immagini di una Taranto ingrigita dall'uomo non sono altro che una metafora del male di vivere dei personaggi nel film. Winspeare sembra volerci suggerire che l'ambiente in cui viviamo è lo specchio della nostra anima, il male che facciamo ai nostri simili è assolutamente equiparabile al male che facciamo all'ambiente, il quale conserva visibilmente le ferite difficili da cancellare.
Il miracolo a questo punto è quello di chi riesce a rendersi conto della condizione propria e dei propri simili. E sarà proprio il protagonista del film, il piccolo Toni (interpretato dal bravo Claudio D'Agostino) a miracolosamente "vedere" la luce (qui comicia il gioco anche divertente della contrapposizione tra luce mistica, che tutti i personaggi credono sia portatrice del miracolo, e luce tutta terrestre delle immagini della città, ben fotografata da Paolo Carnera), ovvero i paradossi, i disagi della nostra società e con le sue doti tutte umane a "salvare" chi sembra perduto e donare speranza per un futuro migliore.
Potrebbe essere questo l'assunto dell'opera, ma se detta con delle immagini interessanti e soprattutto con una umiltà quasi unica nel panorama del cinema italiano contemporaneo, perché non salutarla con un applauso tutto meritato?

Se un regista riesce a esprimere qualcosa anche di elementare, attraverso un'utilizzo originale del linguaggio cinematografico e riesce a dirigere attori per lo più non professionisti (dimostrando di essere uno scopritore di volti nuovi che spesso hanno molto più da esprimere dei soliti giovani attori della commedia "alla Muccino" per intenderci) per ottenere un buon prodotto nostrano che sicuramente emerge dal piattume di tante opere di giovani autori, allora merita di essere approvato senza riserve.
Se poi aggiungiamo un sapiente uso della musica tradizionale degli Zoé, che segue partecipe e spettatrice allo stesso tempo le vicende del film, non possiamo non accogliere positivamente questo piccolo ma onesto film.