Il mio grasso grosso guerriero bianco e nero
Sembrano ormai archiviati i tempi dei principi azzurri e degli eroi invincibili: se Shrek aveva sdoganato il mito dell'eroe perfetto anche dal punto di vista dell'estetica, ci pensa Po a raccogliere la sua "corposa" eredità e a rilanciare nel mondo dell'animazione nuovi punti di riferimento, modelli validi ben oltre il solo aspetto fisico. Se a veicolare messaggi universali aspira un protagonista che ha tutte le carte in regola, non ci sono girovita, appetenza e goffaggine che tengano. Goloso di dolcetti e spaghetti, credulone come un bambino, morbido come un peluche, impacciato come un elefante in una vetrina: Po ribalta (finalmente) i connotati del guerriero. Nel primo episodio del franchise forse ci divertiva l'idea che un campione di arti marziali potesse essere tanto ingombrante, ma ora che è cresciuto, a farci ridere non è più il suo aspetto fisico. Il panda pasticcione ha imparato la tecnica e muove i primi passi verso il raggiungimento della pace interiore come gli ha insegnato il maestro Shifu, uno Yoda orientale senza tempo. Continua a sorprenderci che il suo entusiasmo travolgente superi le abilità motorie, ma l'evoluzione a cui si presta stavolta ci convince ancora di più del fatto che lo slapstick e l'action non siano mai stati così brillanti nello stesso personaggio.
Il grosso grasso guerriero bianco e nero, i colori dello Yin e Yang tanto per restare in tema, adesso s'imbatte nella scoperta delle proprie radici e per la prima volta si confronta con il padre, s'interroga sul proprio destino e assume la guida di una missione leggendaria per impedire che il kung fu muoia. Tra rocambolesche battaglie al fianco dei Cinque Cicloni, tra cui spicca la volitiva Tigre, ed euforici momenti di autoironia e comicità sia nei movimenti che nelle parole, Po ci diverte, ci conduce freneticamente in duelli all'ultimo "abracasquash" o "skadush" e ci commuove con la sua tenera storia d'adozione. Le immagini strabilianti e veloci come razzi fuoriescono dallo schermo coinvolgendo gli spettatori, ma non hanno minore impatto le emozionanti sequenze che raccontano la storia senza ricorrere agli effetti speciali: la profondità visiva del 3D in casa Dreamworks giunge per la prima volta completamente in simbiosi con la profondità narrativa della storia assicurando alla versione cartoon dell'eccellente Jack Black (voce originale negli States) un nuovo mostruoso successo. Alla guida registica del sequel Jennifer Yuh Nelson, la prima regista donna ad aver diretto da sola un film d'animazione per gli Studios, non solo ha dimostrato di saper invertire positivamente la tendenza hollywoodiana di sfornare sequel scialbi di pellicole di successo, ma che basta scegliere la strada meno ovvia e saper rischiare per realizzare una produzione vincente. Affiancata da un team creativo d'eccellenza, tra cui Raymond Zibach, scenografo anche in Kung Fu Panda, e Rudolphe Guenoden, già supervisore in Madagascar, la Nelson riesce a mettere in scena un'opera ben strutturata sul piano artistico ed emozionale. Con una precisa alternanza di soggettive e inquadrature completamente immersive, potenziate da un montaggio accattivante, la regista si rivela sicura e determinata a fare di questo sequel un film memorabile. In Kung Fu Panda 2 l'animazione contemporanea, con la profondità che solo un 3D come questo avrebbe potuto permetterle, si combina con quella più classica degli affascinanti flashback bidimensionali che nulla ha da invidiarle sul piano narrativo. Uno schematismo cromatico ci guida nella lotta tra bene e male: il primo con il verde luminoso della natura, l'altro con il rosso minaccioso dei fuochi d'artificio del diabolico pavone Lord Shen. Ma l'immagine conquista gli sguardi esattamente quanto i dialoghi conquistano i cuori. La spettacolarità delle sequenze si equilibra sorprendentemente con le scene di riflessione che colpiscono l'immaginario del pubblico più sensibile: come si fa a resistere alla scena di un padre che ha esposto nel suo ristorante lo spazzolone dell'eroico figlio come una reliquia sacra?