Lo schermo nero e in sottofondo il rumore dei tasti della macchina da scrivere. Si apre così Il mestiere di vivere di Giovanna Gagliardo presentato nella sezione Concorso Documentari del Torino Film Festival. La macchina da scrivere è quella di Cesare Pavese, tra i più importanti scrittori del Novecento, che nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1950 decise di togliersi la vita in un albergo nei pressi della stazione di Torino, "la città dove era nato spiritualmente". Ne parla apertamente lui stesso in una delle tante lettere scritte in quegli anni che la regista ci fa ascoltare grazie alla voce fuori campo che rievoca quella dello scrittore.
Una figura moderna
Il mestiere di vivere decide di partire dalla fine, da quell'uscita di scena a lungo ipotizzata per cui "ci vuole umiltà, non orgoglio". Pavese attraversa la città, cerca amici che non trova, scrive, telefona. Poi, una domenica sera qualunque, entra in un albergo e scrive la parola fine alla sua esistenza. Gagliardo sceglie di partire dall'epilogo per parlarci dell'uomo e dell'intellettuale, per indagare la sua modernità e rilevanza.
"Pavese l'ho incrociato nella mia adolescenza torinese e non solo. Ovviamente l'ho amato, l'ho letto. Ho imparato a memoria molte delle sue poesie. L'ho messo tra i ricordi di quel fruttuoso passato vissuto nella Torino irripetibile degli anni Sessanta. Ritrovarlo e rileggerlo oggi, a distanza di tanti anni, è stata per me una vera e propria folgorazione", racconta la regista. "Prendi in mano i suoi romanzi, le sue poesie, soprattutto i suoi diari e già dalle prime righe capisci che ti sta parlando del 'presente'. Non del suo presente, ma del 'nostro'. Mette in scena la complessità degli eventi e ti fa capire che non hai scampo. Ti costringe a non cercare risposte semplici, ti sbarra la strada se provi a schierarti. Ti mette alla prova".
Una produzione Luce Cinecittà, realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, Il mestiere di vivere, si muove tra immagini di repertorio e immagini ricreate per appartenere al tempo in cui è vissuto Pavese. Il risultato non sempre è convincente e spezza il racconto visivo. Diviso in tanti piccoli capitoli (il mestiere di studente, il mestiere di poeta, il mestiere di scrittore....), il documentario prova a toccare tutti i punti della vita privata e professionale dello scrittore. La scoperta della poesia, il primo approccio alla forma romanzo, la traduzione di grandi autori come Faulkner e Steinbeck, il rapporto con il cinema, la politica fatta attraverso i suoi scritti, il contributo alla fondazione della casa editrice Einaudi e le delusioni d'amore.
Un racconto canonico
Intervallato da molte interviste, Il mestiere di vivere si esprime anche attraverso i luoghi. Dalla città di Torino alle Langhe passando per la Fondazione Cesare Pavese situata nella città natale dello scrittore, Santo Stefano Belbo. Indubbiamente ricco di spunti e punti di vista, il documentario avrebbe potuto però avere un approccio visivo e narrativo più moderno e meno classico proprio in virtù della modernità del suo protagonista.
La voce utilizzata per il voice over, troppo impostata, tradisce una mancata naturalezza così come il bianco e nero di oggi contrapposto alle immagini di repertorio. Quello che resta alla fine della visione è un compendio della vita di Pavese dal taglio didattico. La sua attualità si scontra con un'impianto narrativo e registico che non permette di andare mai veramente oltre un racconto canonico. E nel parlare di una figura come quella ci Cesare Pavese sembra quasi un controsenso.
Conclusioni
Giovanna Gagliardo sceglie di partire dalla parola “fine” per raccontare a ritrovo la vita intima e professionale di Cesare Pavese. Lo fa dividendo il racconto in tanti capitoli diversi che trattano ognuno un capitolo della sua esistenza sottolineando la modernità dello scrittore, ieri come oggi. Ma l'approccio troppo classico e canonico alla regia e alla struttura narrativa non permette di sviscerare mai a sufficienza una figura tanto complessa come quella di Pavese lasciando la sensazione di aver assistito a un'occasione sprecata.
Perché ci piace
- La scelta di partire dalla fine.
- L'utilizzo delle lettere delle scrittore.
- Il tentativo di toccare più punti della sua vita.
Cosa non va
- Il contrasto tra le immagini di repertorio e quelle ricostruite.
- L'approccio narrativo e registico troppo classico.
- Un voice over poco naturale.
- Un racconto troppo canonico.