Il (mancato) ritorno del Kaiju Eiga?
Per alcuni il cinema orientale è morto. Per altri l'autorialità (termine che è tornato di gran moda dopo l'addensarsi in Italia di quelle strange creatures chiamate "Film Fest") è aggettivo ormai da affibbiare esclusivamente ad una ristretta cerchia di eletti (possibilmente radical chic). Nell'al di qua occidentale sono invece tutti d'accordo sul ritenere il blockbuster come completo appannaggio di Hollywood. Perché i Godzilla e i Gamera sono ormai roba per mocciosetti e per adulti retrivi o, al limite, con il prurito del collezionismo. Dove situare allora questo film di Bong Joon-ho che è la riesumazione nuda e cruda del Kaiju Eiga, uno dei generi più "commerciali" ed esportati/esportabili del cinema orientale di un passato non troppo remoto?
Partiamo col dire che definire The host un semplice film di "mostri giganti" (come quelli legati ad un estetica da B-movie, con i loro modellini e i bizzarri costumi) è assolutamente riduttivo. Anzi, clamorosamente errato. Il catastrofismo tout court tipico del filone non travolge Bong Joon-ho che ha un senso della misura spaventoso. La sua non comune capacità di movimentare in maniera flessuosa gli spazi scenici senza metterli troppo al servizio della computer graphics (straordinario il lavoro svolto sul mostro) è legata a filo doppio con il crescendo della tensione. Prendiamo come esempio la scena in cui il mostro, sopra un feroce ostinato di timpani, crea il primo scompiglio tra la folla: è un momento da tramandare ai posteri, magari dopo averlo somministrato a ripetizione a Jerry Bruckheimer e soci in una "cura Ludovico" che risulti redentrice per la "spettacolosa" Hollywood. Con un regista come Bong Joon-ho, anche l'empasse di alcuni momenti preparatori e l'esuberante parossismo di alcune sequenze (come quella del cordoglio funebre) diventano materiale per cui ogni discussione è solfa. Perché il percorso accidentato di The host è tutto interiorizzato ("esternalizzando", però, il concetto di perturbante presente ad esempio nella saga di Alien), con un pessimismo radicale che si mimetizza nel fumo giallo falsamente salvifico dell'arma batteriologica del finale.
La visione politica e sociale di una Corea del Sud costretta a relazionarsi con gli "invasori" americani (tematica tanto cara soprattutto ai critici nostrani), esplode comunque in varie direzioni, in un nichilismo che travolge tutti i valori umani messi in campo da Bong Joon-ho (vedere il crudele baluginare del finale). Perché la creatura di The host non è sbucata fuori dal fiume Han per distruggere la città, ma per mettere alla berlina l'essenza stessa dell'umanità e delle "bestie" insite in essa (gli scienziati, le autorità coreane e statunitensi). Gang-Du, una sorta di scemo del villaggio (interpretato da Song Kang-ho, il protagonista di quell'altro amaro apologo sulla società sudcoreana che è Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance), si tramuta in un eroe sconfitto in partenza, pur di salvare l'amata figlioletta. La famiglia di Gang-Du comincia così a ruotare intorno al nucleo della storia in questa disperata ricerca, strutturata da Bong Joon-ho come un avvincente vortice che frulla i cunicoli sotterranei di Seoul con gli spazi aperti della capitale sudcoreana.
Campione d'incassi in patria, vincitore di numerosi premi in terra d'Oriente e favorevolmente accolto nella sezione Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2006, The host non è uscito in Italia. E' stato invece regolarmente distribuito in altri paesi che magari sembrerebbero non godere della nostra stessa forza "contrattuale" (parliamo di Turchia, Brasile e Svezia). Inoltre per The host è già pronto negli States un remake. Dispiace doverlo constatare, ma la presupposta morte del cinema orientale sembra sia avvenuta solo in Italia...