Recensione Japón (2002)

Japón è semplicemente l'implacabile svolgersi del giornate con l'obiettivo di porre fine a se stessi, per poi, improvvisamente, scorgere una porta socchiusa dal quale giunge un barlume di luce.

Il lento viaggio per la vita

Il ritmo cinematografico è una componente fondamentale per ingenerare il coinvolgimento di chi guarda un film. Quando poi ne è un elemento concettuale, ovvero è parte integrante della narrativa, la forza delle immagini si insinua irrimediabilmente nella mente dello spettatore.

Japón di Carlos Reygadas, Camera d'or a Cannes nel 2002, è il lungo cammino di un uomo, disilluso e distrutto dal dolore, verso la morte, verso un luogo in cui spegnersi, e la lenta riconquista dei piaceri dell'esistenza, là dove la speranza sembra spenta e appesa a una fievole luce.

La solitudine e il percorso in discesa (metafora del viaggio verso la fine), accompagnano un uomo, del quale non sapremo mai il nome, ad appoggiare le stanche membra, forse per sempre, in un paesino sperduto del Messico, brullo e bruciato dal sole. Giunto a destinazione, un'anziana donna, Ascen (lei dice di chiamarsi Asuncion e non Ascension), che abita distante dagli altri caseggiati in cima a una collina, si offre a dargli ospitalità nel fienile della casa. Eremita e solinga, dopo la morte del marito di molti anni prima, la donna condivide con l'uomo la maturata e accettata disperazione priva di soffi vitali. Entrambi si appoggiano l'uno all'altro, in un rapporto dapprima formale e asettico, e in seguito sempre più forte e necessario. I giorni trascorrono e la pausa in quella dimora, si trasforma in una permanenza densa di piccoli momenti. Ora i tentativi di suicidio dell'uomo si fermano di fronte alla luce incolore del sole: qualcosa sta cambiando.

Riscoprire la sessualità in se stesso e tutto ciò che sta intorno, è un piacere del vivere, elemento di persuasione per il protagonista per aggrapparsi a un filo sottile nato nella sua coscienza. Quando Ascen è costretta ad abbandonare la casa e andare via, la vita resta con il protagonista, e la morte si allontana, pronta a colpire in altri luoghi.

Japón, titolo che non ha riferimento alcuno con la storia, è un racconto del niente e del tutto, è l'emozione del quotidiano, ripreso dal regista nella sua interezza. Bere un bicchiere d'acqua, osservare il desolato e immobile paesaggio, momenti interminabili, ma pieni di significato. L'attesa della fine non è drammatica. E'silenziosa, tranquilla, indolore. La rinascita interiore (l'ascolto della musica, i bambini che corrono, il sesso), è, allo stesso modo, costruita attimo dopo attimo, nei giorni in cui l'uomo vede nella donna, la cui bellezza è stata persa nel tempo, i desideri rinati.
Il tempo corre scivola lentamente fino all'unione dei due corpi. Da qui in poi c'è un cambio di ritmo, le immagini si fanno più serrate, un fuoco si accende nel corpo e nell'anima dell'uomo e scompare da Ascen. L'interminabile piano sequenza finale, con la macchina da presa che corre lungo i binari del treno, esplorando gli spazi, alla ricerca di qualcosa che è accaduto e che è cambiato, ci urla che una vita è finita e un'altra a ha avuto inizio.

Struggente nella sua conclusione, l'opera del regista messicano è difficile e non adatta per tutti gli spettattori, ma è un'esperienza molto forte. Japón è semplicemente l'implacabile svolgersi del giornate con l'obiettivo di porre fine a se stessi, per poi, improvvisamente, scorgere una porta socchiusa dal quale giunge un barlume di luce.
Qual è una sensazione più intensa del vivere. Forse morire.