Il cinema di genere al servizio di una lucida critica sociale e la macchina da presa come strumento di analisi e osservazione di un'Italia profondamente contraddittoria, divisa tra emergenza abitativa, i conflitti identitari di una seconda generazione di immigrati e il machismo bianco di uomini in divisa alle prese con sgomberi, onore e patria. Passa da qui l'esordio alla regia di Hleb Papou, giovane regista di origini bielorusse nato a Minsk nel 1991 e italiano d'adozione dal 2003, da quando con la madre si traferì a Lecco. Il film, come potete leggere in questa recensione de Il legionario in sala dal 24 febbraio, amplia le tematiche contenute in nuce nell'omonimo cortometraggio che Papou aveva realizzato nel 2017 come saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Qui ha l'occasione di affrontarle con un respiro più ampio e un rigore che guarda alla lezione dell'action d'autore da Audiard a Sollima.
Una storia di conflitti
Hleb Papou scrive la sceneggiatura insieme agli stessi sceneggiatori che lo avevano affiancato nel corto, Giuseppe Brigante e Emanuele Mochi, e in appena diciannove giorni di riprese realizza quello che al Festival di Locarno nel 2021 si è dimostrato essere il miglior esordio. Un film che unisce istanze documentaristiche, urgenza del racconto e action, partendo da un edificio occupato nel cuore di Roma, l'ex sede Inpdap a Santa Croce in Gerusalemme, dove vivono 500 persone di 18 nazionalità diverse e dove nel 2019 l'elemosiniere del Papa, il Cardinal Krajewski, tolse i sigilli ai contatori riallacciando la luce staccata una settimana prima circa; successe tutto mentre giravano e quell'episodio finì di diritto in una scena del film. Il legionario è una creatura ibrida e a volte come in questo caso la storia si impone e entra prepotentemente nello spazio della finzione; su questo labile confine tra reale e rappresentazione si muove la storia del protagonista Daniel, nato a Roma da genitori africani, e cresciuto proprio in quel palazzo.
Ma da lì un bel giorno se ne è andato lasciandoci la madre e il fratello Patrick, e nel frattempo si è rifatto una vita: la sua nuova identità l'ha trovata nella divisa da celerino, nel reparto della Mobile di Roma.
All'orizzonte un figlio in arrivo e una nuova missione: sgomberare il palazzo in cui vive la sua famiglia d'origine. Celerino tra gli occupanti e occupante tra i celerini, si ritroverà a fare i conti con le proprie radici e a dover compiere una delle scelte più difficili: restare fedele al corpo di polizia o salvare la propria famiglia.
Daniel, eroe tragico
"Lui almeno non fa finta di non avere una famiglia", dirà la madre rimproverando a Daniel il fatto di tenere nascosta ai colleghi la loro esistenza. L'intero conflitto del film si consuma attorno a questo dualismo: da un lato il cameratismo dei celerini, il rumore dei manganelli che si agitano su corpi e superfici, il suono indistinto delle voci di quegli uomini in divisa, la paura in un mix di ordini confusi e fumogeni che si alzano tutto intorno, dall'altro il senso di comunità degli occupanti, il bisogno di difendere quello spazio che li definisce e li mette al riparo dalla strada, la necessità di rivendicare il diritto ad avere un tetto sopra la testa. Sono le anime antagoniste di questa storia, in cui il terreno dello scontro si consuma e si materializza tanto nel contrasto fra i due fratelli, quanto all'interno del protagonista stesso, eroe tragico e tormentato tanto quanto il Capitano Nascimento di Tropa de Elite - Gli squadroni della morte, di cui il film rievoca atmosfere e suggestioni.
Papou esplora così le facce di un'Italia multiculturale come mai nessuno aveva fatto prima nel cinema italiano, analizza i conflitti delle seconde generazioni di immigrati e rivolge lo sguardo alla questione dell'emergenza abitativa: lo fa senza esprimere giudizi, senza condanne o falsi moralismi, e aggira il pericolo di una narrazione stereotipata. La sensazione è di trovarsi in un magma nell'attesa dello scontro finale: tutti gli ottanta minuti di film sono un crescendo di tensione tra irruzioni, addestramenti e mobilitazioni. Una costruzione che si muove tra i dogmi del cinema d'autore e le regole dell'action movie, mentre nel mezzo si agitano diverse umanità più o meno smarrite e alla ricerca di un posto nel mondo.
Conclusioni
Concludiamo la recensione de Il legionario con la consapevolezza di aver scoperto un nuovo autore, capace di usare le regole del genere al servizio dell’analisi sociale. Uno sguardo originale sui conflitti dell’Italia contemporanea attraverso gli occhi di un celerino di origini sudafricane costretto a fare i conti con un’anima divisa tra le proprie origini e la nuova identità. La storia di un eroe quasi tragico tra Audiard e Sollima. Peccato che il livello recitativo non sia all’altezza del resto.
Perché ci piace
- Il modo in cui le regole del genere e i dogmi del cinema d’autore convergono in un’unica urgenza: analizzare alcune questioni sociali dell’Italia contemporanea sospesa tra emergenza abitativa e una multiculturalità che lotta per rivendicare le proprie istanze.
- La decisione di far convergere nel personaggio di Daniel la conflittualità che attraversa l’intero film.
Cosa non va
- Le interpretazioni non sempre convincono ed è a livello recitativo che il film dimostra forse le sue maggiori debolezze.