Documentari, libri, film, testimonianze. Sulla Germania nazista e l'orrore dei lager sono stati scritti volumi e realizzate pellicole che hanno contribuito a lasciare vivo il ricordo della pagina più oscura della storia recente (sebbene nel mondo ancora oggi siano presenti parentesi di atrocità che calpestano ogni diritto umano nell'indifferenza generale). Dai classici come Schindler's List e Kapò, passando per il meno conosciuto Defiance - I giorni del coraggio o il premio Oscar La vita è bella, registi molto diversi per stili hanno ricostruito quello che accadeva nel campi di concentramento e per le vie delle città europee grazie alle storie dei loro protagonisti. Le generazioni successive, dunque, hanno assorbito e fatto propri quegli eventi, nella convinzione che all'indomani dell'apertura dei lager da parte degli americani, ogni singolo cittadino tedesco fosse stato messo a conoscenza di quello che avveniva in quei capannoni.
Una scoperta che ha conseguentemente portato ad un'ondata di indignazione che ha dato vita ad un lungo processo di (auto)critica e al bisogno di ricordare per fare da monito per il futuro. Quello che Il labirinto del silenzio racconta è che non è andata esattamente così. Alla fine della guerra e per tutti gli anni '50 in Germania quasi nessuno, specie i più giovani, sapeva con certezza cosa fosse accaduto durante gli anni precedenti e chi ne era a conoscenza faceva finta di non ricordare perché la volontà unanime era quella di passare oltre, insabbiare e liberarsi di quei ricordi. Ma come diceva Cesare Pavese - "Non ci si libera di qualcosa evitandola ma soltanto attraversandola" - l'unico modo per superare quel male era affrontare l'orrore del quale si erano macchiati non solo i gerarchi nazisti ma anche gli uomini comuni. Proprio questo è l'input dal quale parte Ricciarelli per il suo film.
Il Labirinto del Silenzio, infatti, non è un canonico film sull'Olocausto quanto piuttosto sulla Germania degli anni '50, immersa in un clima di irreale freschezza e vivacità, fatto di canzoni dal tipico sound rock'n roll, vestiti dal taglio americano e voglia di guardare al futuro. Ma non si può guardare avanti senza fare i conti con il passato e su questo basa la sua lotta il giovane procuratore Johann Radmann (Alexander Fehling) che scopre quello che realmente avveniva in quei "campi di protezione" e l'implicazione di un gran numero di cittadini qualunque che dopo la fine della guerra tornarono, come se nulla fosse accaduto, alle loro precedenti mansioni. Il suo lavoro d'indagine porterà all'istituzione dei processi di Auschwitz che permisero di scoprire una realtà fino a quel momento lasciata nell'ombra e dalla quale prese il via il processo di autoanalisi della Germania che, attraverso il ricordo, continua ancora oggi.
Un film storico con parentesi di "fiction"
Ne Il Labirinto del Silenzio convivono due anime. Da una parte l'accuratezza storica e la volontà di raccontare e far conoscere la figura del Procuratore Generale Franz Baum, fondamentale nell'istituzione del processo, dall'altra quella di inserire una linea narrativa "altra" rappresentata dalla figura inventata di Johann Radmann, interpretato da un ottimo Alexandre Fehling (in queste settimane tra i protagonisti di Homeland), con la quale il regista riesce a raccontare in modo più approfondito l'atmosfera della Germania degli anni '50. "Il tema trattato è forte anche perché è una storia quasi del tutto sconosciuta in Germania. Sono anni che vivo lì e fino al 1945 avevo molte informazioni sulla storia tedesca. Dei successivi vent'anni, invece, non sapevo nulla. Volevo far riaffiorare questa pagina ma, al tempo stesso, raccontare una storia cinematografica concentrandomi sul suo giovane protagonista che nasce dall'insieme dei tratti di tre procuratori che lavorarono alle indagini" ci ha raccontato il regista al suo debutto con un lungometraggio, dopo i successi riscossi con i suoi corti e una carriera avviata proprio in terra tedesca.
Sullo sfondo delle investigazioni e della lotta perpetrata dal giovane procuratore per arrestare i nazisti, celebri e comuni, ingiustamente impuniti all'indomani della fine della guerra, troviamo Franz Bauer. Una figura storica fondamentale per l'Europa della seconda metà del '900 ma che : "per la gente era ed è un perfetto sconosciuto. Un eroe dimenticato al quale, ad esempio, non era stata neanche dedicata una via. Con questo film stiamo rivalutando la sua figura in una Germania di oggi che non consce affatto quegli avvenimenti" precisa Ricciarelli che aggiunge: "Una volta trovate le prove di quello che avveniva ad Auschwitz, grazie al giornalista Thomas Gnielka, ha affidato l'incarico a dei giovani procuratori che, per regioni anagrafiche, non erano coinvolti in prima persona con quegli eventi. Bauer era un mentore per loro. Gli spiega che tutti erano coinvolti, non solo Adolf Eichmman o Josef Mengele ma anche le persone comuni. Un grande insegnamento per loro e la Germania".
L'importanza della memoria
In un clima di rigurgito neo-nazista, Il Labirinto del Silenzio, s'inserisce nel costante impiego di documentare, anche attraverso lavori artistici, gli atti barbari commessi dai nazisti e non ha caso il film esce in sala e due settimane dal Giorno della Memoria per venir poi proiettato per le scuole. I processi di Auschwitz raccontati nel film, grazie ai quali nasce il concetto di "memoria", testimoniano senza mai mostrare i crimini dei quali si macchiarono anche semplici cittadini che non mostrarono mai rimorso per quello che fecero, neanche una volta portati in tribunale. "Il lavoro della memoria è importante ma in Germania c'è anche un sentimento di "stanchezza", una "Olocausto fatigue" come la chiamano degli storici americani sebbene la volontà di mantenere vivo il ricorda sia costante. La generazione di oggi non è colpevole per quello che è accaduto ma come tedeschi sono responsabili. Questo è un concetto per me fondamentale. La colpa è individuale".
La sceneggiatura fonda proprio sul senso di responsabilità la sua ragion d'essere. Giulio Ricciarelli ci mostra ex guardie delle SS che nella Francoforte del 1958 insegnano nelle scuole o lavorano agli uffici pubblici. Inoltre sottolinea come il male non si nascondesse solo dietro i volti ed i gesti dei gerarchi, da Heinrich Himmler a Joseph Goebbels, ma anche dietro la "rispettabilità" di un maestro elementare o di un panettiere sebbene il regista non condivida la celebre tesi della banalità del male della quale parlò Hannah Arendt durante il processo a Gerusalemme ad Adolf Eichmman. "Era l'amante di Martin Heidegger, una delle menti più importanti del secolo scorso eppure simpatizzante nazista. Lei parla di banalità del male ma non c'era nulla di banale in quell'uomo".
Il Labirinto del Silenzio, con il suo stile classico e l'impronta da film per la tv prestato al cinema, sebbene sia coadiuvato da interpretazioni di ottimo livello e da un'attenzione ai dettagli storico/culturali, non mantiene costante il ritmo, perdendosi nella seconda metà del film, nonostante la narrazione rimanga lineare e attenta a non "contaminare" troppo la sceneggiatura con sottotrame invadenti.
Movieplayer.it
3.0/5