Il grande mistero della vita
Il primo respiro. Ovvero il primo vagito. E' proprio al primo afflato di vita che si riferisce il titolo del nuovo lungometraggio di Gilles De Maistre, prolifico autore televisivo francese che abbiamo visto sporadicamente al cinema per Killer Kid e per Feroce, sue opere precedenti.
Ci troviamo di fronte senza ombra di dubbio ad un documentario. Ma è un documentario particolarissimo: non c'è nessuna denuncia, non c'è nessun fatto poco conosciuto su cui indagare.
L'oggetto è il grande mistero della nascita, l'istante in cui una nuova vita viene alla luce, inizia la propria strada sul lungo cammino del mondo. De Maistre ha uno sguardo curioso, si muove su e giù per i cinque continenti, dall'Africa agli Stati Uniti, dal Messico alla Siberia, dalla Corea al Giappone, fino alla Francia, a noi più vicina e familiare. Sono dieci le storie narrate ne Il primo respiro, dieci le mamme, dieci i piccoli che, forse, vedranno l'alba di un nuovo giorno, il primo per loro.
Come trait d'union narrativo, la data: il 29 marzo del 2006, giornata segnata indelebilmente dall'ultima, rarissima, eclissi totale di sole che si è potuta ammirare in alcune zone del pianeta.
Il mastodontico lavoro di ricerca che si è sedimentato alle spalle dell'ora e mezzo di girato offerta al pubblico basta, da solo, a testimoniare la grande passione del regista, l'urgenza di raccontare la propria storia.
Durato oltre due anni, ha coinvolto oltre 40 informatori locali, che hanno monitorato e verificato la disponibilità a farsi riprendere di oltre 120 donne, mancando a 10 parti in giro per il mondo e filmandone altrettanti. Ne esce una pellicola che punta sul lirismo di un mistero irrisolto. La nascita è infatti un avvenimento che non si presta ad essere spiegato compiutamente dalle parole, dalla fredda ragione, che ha in sè alcuni elementi di inintelligibilità per la razionalità dell'uomo.
Probabilmente è per questo che De Maistre, con l'aiuto di una discreta voce narrante (nella versione italiana è quella di Isabella Ferrari), seleziona solo casi fuori dal comune, che spesso lasciano perplesso lo spettatore, forse a ragione abituato alla routine del protocollo ospedaliero.
Il regista passa invece dal parto nell'oceano messicano, accompagnato dal canto dei delfini, a quello in una "comune" americana, privo per scelta di qualsiasi aiuto medico. Dalla ragazza siberiana, costretta dai 50 gradi sotto zero ad imbarcarsi su un elicottero per raggiungere il piccolo e remoto ospedale, a quella africana, che dà alla luce il proprio bimbo sulla nuda sabbia. Dalla madre indiana, lacerata tra l'amore per la propria bimba e la consapevolezza che la sua terza figlia non avrà una vita facile in una società maschilista, e il reparto di maternità coreano, il più grande del mondo in un paese nel quale partorire in ospedale è un obbligo di legge.
Qualche perplessità rimane per l'unico parto dall'esito drammatico. Il dubbio se la telecamera potesse essere spenta e il bimbo, che morirà, aiutato in qualche modo, è di difficile risoluzione.
Un eccessivo lirismo forse, la ricerca di casi eccezionali che si pongono come tali in una "normalità" occidentale che viene volutamente tenuta in disparte.Forse non c'era bisogno di tanto particolarismo: il grande mistero del primo respiro, conserva la propria affascinante unicità anche nel sistema più perfettamente disumanizzato.