Recensione Dall'altra parte del mare (2008)

Un film sull'Olocausto, ma anche sulla vita e sul teatro, che stempera una tematica dolorosa negli irrisolvibili conflitti tra l'espresso e l'inesprimibile

Il dolore velato

Quando la materia teatrale è innestata in quella cinematografica è sempre difficile mettere in scena una narrazione toccante ed emozionante senza che il grande e imponente schermo ne filtri le emozioni. Se poi quel tema narrativo è perfino più delicato del mezzo stesso e della duplicazione delle sue potenzialità, allora il cinema rischia una raffigurazione che rasenta la leziosità per evitare ripetizioni già collaudate. Dall'altra parte del mare è sicuramente un film molto ambizioso eppure declina dalle rappresentazioni autoriali della Shoa (tra le più recenti il delicatissimo e riuscito Il bambino con il pigiama a righe). Jean Sarto vuole rendere visibile l'invisibile del dramma umano, dell'atrocità dei massacri, dei conflitti esistenziali, delle ritorsioni psicologiche e seleziona un innovativo stile della non denuncia, confidando e affidando al mero valore di testimonianza del passato la forza critica e la violenza polemica della sua opera. Per realizzare le sue velleitarie intenzioni palesa in ogni minino dettaglio del film un significato altro, che supera l'apparenza senza mai negarla: il nome del protagonista maschile è Abele, nome biblico che richiama subito alla mente dello spettatore la figura del fratello buono, mentre la donna si chiama Clara, come la trasparenza, segno tangibile dei suoi sentimenti. Il teatro che viene inserito nel film è quello d'avanguardia, un genere ambiguo la cui profonda dialettica può essere consegnata anche a un solo volto o a un solo movimento del corpo dell'attore.

Abele è un regista teatrale al quale il Comune di Trieste affida per il giorno della memoria un'opera teatrale che ricostruisca sul palco quella che la filosofa ebraica ha chiamato "banalità del male" perpetrato dai nazisti. Il regista chiede allora all'amica e collega Clara, che nel '79 aveva filmato la testimonianza della pianista Tosca Marmor (Gordana De Santis), scampata ai campi di sterminio ad Auschwitz, di aiutarlo. Mentre Clara ha in mente una rappresentazione semplice il cui senso sia veicolato dal valore etico della parola, le posizioni di Abele sono radicali: egli infatti vorrebbe dar vita a una vera e propria installazione d'arte contemporanea multimediale avulsa da qualsiasi sorta d'irrispettosa spettacolarizzazione e da qualunque tragica fagocitazione dalle modalità affabulative e dagli intenti catartici. Insieme a una compagnia un po' perplessa, i due riflettono sull'Olocausto, si documentano, ne discutono e tentano di comprenderne gli aspetti più equivoci. Durante le prove Clara riconosce in una fotografia dei domobranci il padre scomparso quand'era piccola e, malgrado il terrore accecante d'incappare in un ex assassinio fanatico, quando si ritrova a pochi metri da lui, decide di conoscerlo e presentarsi.
Un film che indaga nel passato più insanguinato della storia questo diretto da Jean Sarto, ma che finisce per arrestarsi su una storia personale, quella di Clara (la flemmatica Galatea Ranzi), col difetto d'indebolire ulteriormente un'impalcatura narrativa interessante ma già flebile, specie a causa delle forzature visive e delle colte citazioni letterarie, abbozzando fino alla fine con una fragile vacuità e sottraendosi a una essenziale conclusione. I suoi attori si sono dovuti misurare con i linguaggi diversi che sembrano allo sguardo dello spettatore tagliole disseminate sul set, sul palco, sul fondale delle scene. Questa difficoltà di resa filmica ma anche interpretativa finisce per appiattire, sotto il peso di un'accozzaglia d'immagini sbavate e incerte, perfino attori come Vitaliano Trevisan, nel ruolo del protagonista Abele, che non riconosciamo più come il volto penetrante del mostro frigido e perverso del lontano Primo amore di Matteo Garrone.