Il dolore mangia l'anima
Uscito dal carcere, Alì tenta faticosamente di tornare alla vita di sempre nelle Teheran dei nostri giorni. Al lavoro le cose non vanno per il verso giusto, visto che per i suoi precedenti penali, viene costretto a seguire massacranti turni notturni. A farne le spese sono soprattutto la bella moglie (Mitra Hajiar) e la piccola figlia. Quando la compagna di vita viene uccisa fortuitamente durante uno scontro fra polizia e manifestanti ribelli e la bimba scompare nel nulla, qualcosa nella mente dell'uomo inizia a vacillare, tanto da fargli indirizzare la sua vendetta proprio contro le forze dell'ordine. Sfruttando le sue grandi capacità di cacciatore, precisione e mira, Alì uccide un poliziotto alla guida di una volante e inizia un gioco al rimpiattino con due agenti che alla fine lo arrestano. Inizia così l'ultima battaglia della sua travagliata vita.
Capolavoro o esperimento non riuscito alla perfezione? La verità, forse, sta nel mezzo, perché The Hunter - Il cacciatore, opera del regista iraniano Rafi Pitts presentata fuori concorso al 28.mo Torino Film Festival, parte come un potente affresco dell'attuale società iraniana, un mondo in cui le contraddizioni sono all'ordine del giorno, così come i conflitti politici, per poi affondare nelle sabbie mobili di un confusionario racconto della mediocrità umana. Il film mantiene nella sua stessa struttura, divisa nettamente in due parti, questo andamento "schizofrenico", che alla lunga impoverisce un'opera dallo spessore altrimenti ben più profondo. Alì, interpretato dallo stesso regista e sceneggiatore, è un uomo incapace di reinserirsi nel mondo del lavoro dopo la drammatica esperienza carceraria. Il suo straniamento è quello di un intero popolo (verde è il colore dei movimenti democratici iraniani, un tono che compare sulle pareti di casa del protagonista, così come sulla sua macchina), continuamente in balìa delle autorità di turno. Non è un caso che i bellissimi titoli di testa abbiano come sfondo una vecchia fotografia scattata nel 1980 da Manucher Deghati, raffigurante un gruppo di uomini in motocicletta (i pasdaran o Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica) durante le celebrazioni per il primo anniversario della Rivoluzione Iraniana. A detta dello stesso regista, sono in molti a chiedersi oggi se il popolo del Trono del Pavone sia stato derubato della Rivoluzione. Nella prima parte del film, la più riuscita, Pitts delinea con classe assoluta e grande rigore formale questo senso di inadeguatezza, disegnando paesaggi senz'anima, attraversati da enormi autostrade che non sfigurerebbero a Los Angeles e dintorni. Senza voler essere didascalico, il cineasta iraniano manifesta con pulizia gli "effetti" del vuoto che circonda Alì, così forte da fargli perdere completamente l'umanità e trasformarlo in una macchina di morte sanguinaria. Nella seconda tranche, quando ormai il buon senso si è definitivamente perso e The Hunter - Il cacciatore diventa una partita a tre fra Alì e i poliziotti che cercano di arrestarlo, va in scena un teatrino dell'assurdo, difficile da seguire, che vanifica quanto di buono si vede nella prima parte. Sarebbe più giusto, allora, parlare di occasione sprecata da parte di un autore davvero molto talentuoso, ma non del tutto capace di tracciare fino in fondo un vero discorso sulla deriva umana, sulla violenza che viene incubata in certe situazioni (anzi, legata a doppio filo ad un'atmosfera repressiva), sulla libertà individuale e la responsabilità sociale.
Movieplayer.it
2.0/5