Si può raccontare il passato, si può persino cambiare la Storia, quella con la S maiuscola, d'altronde il cinema si è sempre dimostrato l'arte che ha il potere di catapultarci nel luogo del Sogno, che sia d'impronta realista o che sia totalmente onirico. Un sogno composto da proiezioni di luce e ombre che danno vita a fantasmagorie (il cinema non è altro che un'evoluzione della lanterna magica) e fantasmi sullo schermo. Fantasmi che appartengono al passato, come i protagonisti de Il complotto contro l'America, l'eccezionale miniserie targata HBO scritta da David Simon, già autore dell'indimenticabile The Wire, ed Ed Burns, che prendono il romanzo di Philip Roth (non l'ultimo degli scrittori) e riescono addirittura a superarlo grazie a un finale più ambiguo e meno positivo di quello immaginato dallo scrittore di Newark. Si parlava di fantasmi, come la famiglia Levin che, nel corso delle sei puntate che compongono la miniserie, sono costretti a rinunciare a una vita ordinaria per diventare sempre più impauriti e silenziosi nella loro esistenza. Ma parliamo anche dei fantasmi del razzismo che mai come in questi anni sono tornati a perseguitarci e che rendono questa distopia ambientata negli anni Quaranta non una semplice Storia alternativa, un curioso "What If" per il gusto di immaginare un altro mondo, ma una proiezione del nostro tempo e delle nostre paure. Ed è così che in un corto circuito che solo il grande cinema può creare (perché, nonostante sia un prodotto televisivo, Il complotto contro l'America non ha nulla da invidiare alle opere del grande schermo) il mondo del sogno (americano) si disvela e quello che rimane sono solo fantasmi che continuano a perseguitarci.
Un viaggio orrorifico nel tempo
Non è ovviamente un horror, Il complotto contro l'America, ma finisce per assomigliarci sempre di più, soprattutto nel corso della sua ultima puntata che porta a compimento il lungo percorso di tensione e ansia crescente che la famiglia Levin è costretta a sopportare. Nel viaggio in auto che Herman Levin (Morgan Spector) e suo figlio Sandy fanno dal Kentucky al New Jersey per riportare a casa l'orfano Seldon viene raccontata tutta l'America più oscura e terribile attraverso i pogrom del Ku Klux Klan contro gli ebrei e una lunga odissea notturna che sembra durare un'infinità. La violenza non è mai mostrata sullo schermo eppure è pienamente percettibile, presente, quasi respirabile. Renderla implicita e fuori campo la rende, paradossalmente, più forte e tragica. È un 1942 alternativo, quello raccontato da Simon e Burns (e ancor prima da Roth), un 1942 dove l'America ha scelto Charles Lindbergh, un pilota militare con idee xenofobe e razziste, come Presidente al posto di Roosevelt. Una vittoria che avviene contro i pronostici della vigilia, quasi a sorpresa, tra l'incredulità generale. O forse no, perché il nazionalismo, quell'"America First" che è il motto di un vero Presidente americano di questi anni, era già ben presente nel sangue e nella mentalità del popolo americano che pur di evitare la Seconda Guerra Mondiale era pronto ad allearsi con Adolf Hitler e condividerne i pensieri sulla superiorità della razza. Così, il racconto riesce a turbare mettendo in scena il male proveniente non da forze cosmiche o da esseri soprannaturali, ma dai vicini di casa, dalle persone che conosciamo, persino dagli stessi legami famigliari. L'orrore è quanto più vicino a noi.
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Una storia di disgregazione
Nazionalismo e identità collettiva come popolo americano sono i motori che, invece, sfaldano l'unione del Paese fino a frantumare gli equilibri professionali e soprattutto personali. La famiglia Levin si fa portavoce e ritratto di una famiglia tipo (americana, prima ancora che ebrea, come il capofamiglia sottolinea costantemente) che, nel corso degli anni della presidenza Lindbergh si sfalda. Si perde il legame tra padri e figli, tra zii e nipoti e tra fratelli e sorelle: ognuno diventa sempre più interessato alla sua dimensione personale, incapace di vedere oltre il proprio naso (fa eccezione la madre Bess, interpretata da Zoe Kazan, che sembra sempre prevedere il quadro generale ma che non ha la forza per farsi valere) e chiuso nelle proprie sicurezze da rimanerne intrappolato: Herman rischierà più volte la vita per farsi portavoce del libero pensiero, Evelyn (Winona Ryder) e il rabbino Bengelsdorf supporteranno il Presidente fino a perdere rispetto e legami d'amicizia, il cugino Alvin si scontrerà con lo zio, gli stessi fratelli Philip e Sandy vedranno scemare la loro alchimia e il loro affetto. Si frantuma una famiglia e si frantuma, di conseguenza, la nazione. Si frantuma anche il racconto che, nel corso degli episodi, procederà attraverso salti temporali ed eventi - anche importanti - lasciati implicitamente sullo sfondo (tanto che spesso si ha la sensazione di essersi persi dei pezzi di storia). Curioso notare come una delle prime inquadrature della prima puntata rappresenti una cena in famiglia in cui tutto i componenti sono "legati" e presentati attraverso un movimento di macchina circolare continuativo, senza stacchi: è la famiglia unita, felice, dove il momento della cena è il momento della giornata che sancisce il loro legame e il loro amore. Si ritroverà qualcosa di simile solo nell'ultima puntata, quando una lunga ripresa unisce di nuovo moglie e marito che si tengono per mano, seduti in salotto ad ascoltare la radio. Non è un'unione ritrovata, non è di nuovo quella felicità che ormai appartiene al passato, ma è un primo passo di rinascita. La ferita, forse, si potrà rimarginare.
Il complotto finale
Ed è sul rimarginarsi della ferita che la miniserie si chiude risultando però più cupa rispetto al romanzo originale. Il libro si concludeva con la scoperta del complotto tedesco contro Lindbergh (una marionetta sotto ricatto dei tedeschi) e una nuova rielezione di Roosevelt come Presidente degli Stati Uniti nel 1942, poco tempo prima dell'attacco a Pearl Harbor e all'entrata in guerra degli USA. In qualche modo, potremmo dire che Roth sceglieva di ripristinare, a suo modo, la Storia come se quei due anni fossero stati una parentesi eccezionale e dimenticata. Simon e Burns, invece, decidono di lasciare il verdetto delle elezioni del 1942 aperto, insoluto, lasciando spazio persino a dubbi relativi al comportamento di Lindbergh: complotto ordito dai tedeschi o scusa che il rabbino inventa su due piedi per giustificare le sue azioni e riacquistare fiducia da parte della comunità? Il complotto contro l'America, nella miniserie, è più interno, proviene dagli alti rappresentanti dello stato che, in nome di un nazionalismo cieco ed estremo, attuano un lavaggio del cervello ai cittadini che, per paura di ciò che avviene all'esterno, si lasciano sopraffare fino a distruggere tutto ciò su cui, invece, l'America è basata. Le elezioni finali mostrano, ancora una volta, come la facciata americana che ne racconta il famigerato Sogno sia, in realtà, un'immagine pubblicitaria e irreale rispetto alla realtà (e quanto è sintomatico quest'aspetto nel modo in cui il piccolo Seldon deve affrontare il lutto della morte della madre uccisa dal KKK? Orfano di entrambi i genitori, ma almeno ha i cereali di marca a colazione). I cittadini sembrano cambiati, il razzismo sembra addormentato, la fiducia nello Stato sembra tornata, ma mentre Frank Sinatra celebra l'America vediamo anche schede elettorali mandate al rogo e risultati compromessi. Cosa significa "America First" a questo punto? È ancora il momento di pensarlo? Cosa pensa davvero il popolo americano? Il complotto contro l'America si conclude con quella radio accesa e che risuona nello schermo nero prima dei titoli di coda, portandoci dal novembre 1942 al novembre 2020, con l'eco rumoroso di queste domande a cui lo stesso popolo americano dovrà rispondere.