Un bambino su una sedia fissa una parete piena di copricapo. È Tochtli ed è il giorno del suo decimo compleanno. La stanza in cui si trova dà già la grandezza e lo sfarzo dell'intera abitazione, che è infatti gigantesca. In casa sta per svolgersi una festa per il bambino, ma non una festa qualunque: niente compagni di scuola, nessun amico, niente giochi. I soli compagni e sono quelli del padre, Yolcaut (Manuel Garcia-Rulfo), nient'altro che il boss del cartello del narcotraffico di Sinaloa, ma a Tochtli vogliono bene e lo trattano come un vero principe, esattamente come i domestici e l'insegnante privato, Mazatzin.
Una cena semplice ma gustosa e qualche appagante regalo, soprattutto il nuovo animale ricevuto dal padre, un picchio esotico del Brasile. A Tochtli gli animali piacciono molto, forse più di tutto, ma ama anche la cultura, soprattutto storia e letteratura. Un ragazzino come tanti ma diverso da tutti, recluso per esigenza in questa sorta di palazzo che è in realtà una madriguera, che è il termine con cui i messicani indicano un "covo di animali" e per estensione di criminali. Fiesta en la madriguera è anche il titolo originale del romanzo di Juan Pablo Villalobos da cui è tratta questa fedele trasposizione de Il bambino che collezionava parole di Manolo Caro, disponibile su Netflix è con un taglio cinematografico delicato e interessante.
L'importanza delle parole
Siamo in un Messico lontano e sognante, tra il lirico e il fiabesco. La madriguera di Yolcaut è costruita in una remota regione del paese, in una zona desertica. Un vero e proprio castello che sorge in mezzo al nulla, concepito come rifugio sicuro soprattutto per Tochtli, che pur sembrando consapevole dell'attività del padre non è ovviamente in grado di discernere completamente tra bene e male, che trova concetti alquanto sfumati e indistinti. Da una parte Yolcaut lo cresce sì, con molto affetto, ma dandogli input e insegnamenti di potere, sociali e di carattere per (quasi) nulla sani per un bambino di dieci anni. E Tochtli lo ascolta e lo venera, il padre, e gli domanda cosa fare e come comportarsi, i perché e i per come delle cose. Dall'altra, però, la sua spiccata sensibilità per la cultura lo spinge a riflettere molto sul mondo, sulle persone e su se stesso, facendo anche tesoro delle lezioni di Mazatzin, che sembra l'unico a insegnarli l'effettiva diversità tra bene e male, tra le azioni deprecabili e quelle invece giuste. Lo fa attraverso i libri, soprattutto, in particolare per aiutare Tochtli nella sua formazione personale in un mondo chiuso e complesso dove l'innocenza, persino quella del bambino, è appena una facciata.
Il piccolo protagonista è il vaso di Seneca: plasmabile e riempibile a piacimento, a seconda dell'insegnante, finché non si arriva all'orlo. In questo senso, come diceva anche Nanni Moretti in Palombella Rossa, "le parole sono importanti": per la crescita del bambino e nel modo in cui andrà a confrontarsi con l'esterno e con gli altri, ma è altrettanto vero che ad appena 10 anni Tochli impara a conoscere entrambe le facce della morale e della vita, rimanendo all'equatore tra le due. La scrittura de Il bambino che collezionava parole è strutturata ed efficace anche se non particolarmente brillante, pur funzionando nelle intenzioni del racconto e dello sviluppo narrativo del protagonista. Esiste solo Tochli e il resto è principalmente di contorno e aiuto, compreso lo stesso Yolcaut. Così è nel libro, così è nel film: un deserto dei tartari dove la fortezza è tutto perché tutto è il bambino, nonostante all'intero della stessa convivano luci e ombre senza troppe soluzioni di continuità.
La Candalù del narcotraffico
C'è un cinema che strizza l'occhio al coming of age più indipendente ma anche a grandi titoli del passato, ne Il bambino che collezionava parole di Manolo Caro, che pur riesce a presentarsi con una sua decisa identità stilistica. Guarda alle tinte fiabesche e autunnali di Wes Anderson e anche alla Candalù del Quarto Potere di Orson Welles, non solo per la centralità di questo misterioso castello edificato nel nulla ma per i tanti segreti (o come le chiama Tochtli "le verità non belle da sapere") celati al suo interno e al mondo là fuori. Quello del crimine organizzato e dei cartelli del narcotraffico è poi in effetti un potere in grado di pilotare e preoccupare interi paesi in modo totalmente differente - concretamente e concettualmente - da quello della stampa, ma resta comunque potere. E Yolcaut è il Kane della situazione, con Tochtli che è la sua Rosabella, la cosa più preziosa e importante della sua vita, l'innocenza che vive ancora tra le mura di una fortezza sognante con tanto di zoo privato (e torna ancora Candalù) e al centro dell'interesse della stampa.
La regia di Caro resta sempre funzionale al semplice racconto di fondo, molto più vivido e interessante nei sottotesti suggeriti che nella messinscena effettiva, anche se il piccolo Miguel Valverde è un Tocthli esemplare, dalla sguardo che ricorda da vicino il Jacob Trambley degli inizi, di The Room (è un caso che anche lì si parlava di un bambino e di una "fortezza"?), così come un convincente Miguel Garcia-Rulfo. Un film gradevole che non passa mai il limite della commozione e che non sembra interessato a stuzzicare le emozioni del grande pubblico, piuttosto a un'intelligente e per nulla ingenua riflessione sul valore di tanti e diversi insegnamenti e di tanti e diversi insegnanti, sulla flebile linea che separa giusto e sbagliato, sulla costruzione di un'identità (con Tochtli che ne veste diverse nel corso del film), sulla qualità dell'infanzia come prodotto di un certo ambiente ma anche sull'ambiente in quanto prodotto per l'infanzia, luogo sicuro e inviolabile nonostante le difficoltà interne ed esterna a quel mondo.
Conclusioni
In conclusione, Il bambino che collezionava parole adatta con fedeltà e spirito stilistico interessante l'omonimo romanzo di Juan Pablo Villalobos, tra indie e sguardo autoriale, una storia di formazione dedicata all'innocenza all'estremo tentativo di preservarla all'interno di un mondo di "verità inconfessabili" e oscurità. L'emozione fa appena capolino in un racconto dove il sottotesto è più appagante dell'immagine, che resta evocativa soltanto a singhiozzo. Suggestivo, piacevole e pedagogico.
Perché ci piace
- Le interpretazioni del piccolo Miguel Valverde e di Miguel Garcia-Rulfo.
- Quelle analogie forse involontarie con alcuni elementi di Quarto Potere.
- Il sottotesto, la riflessione che ispira.
Cosa non va
- La regia è soprattutto funzionale al racconto.
- Il ritmo fin troppo compassato in un'atmosfera sospesa.
- Il finale.