Identità hongkonghesi
Campione d'incassi ad Hong Kong nel 2002, grande successo in tutta l'Asia e iniziatore di una trilogia che ha generato un sequel e un prequel, questo Infernal Affairs rappresenta sicuramente uno dei titoli più importanti del "nuovo" cinema cantonese, anche a prescindere dal suo valore specifico o dal fatto che ad Hollywood stiano preparando il solito, immancabile remake (che stavolta vedrà coinvolto nientemeno che un grande cineasta come Martin Scorsese). Prima di ogni altra considerazione, infatti, bisogna dire che questo film rappresenta un compromesso tra esigenze diverse, compromesso che ben rappresenta lo stato attuale della nuova cinematografia di Hong Kong: attenzione a una certa "occidentalizzazione" dei gusti del pubblico, estrema cura della confezione, presenza di un gran numero di star, unitamente a una sostanza che resta profondamente calata nella tradizione culturale di cui il film fa parte. Ed è proprio nella gestione di questo compromesso che il film riesce dove aveva invece fallito una pellicola come So close di Corey Yuen: la sostanza della storia, e le modalità narrative, restano qui tipicamente hongkonghesi, mentre l'estetica del film mostra una contaminazione con un certo cinema commerciale occidentale, senza per questo far perdere unità di tono alla pellicola.
La storia narra il confronto/scontro tra due individui profondamente combattuti, entrambi costretti in un ruolo antitetico a quello da loro scelto: Yan è un poliziotto sotto copertura, infiltrato in una potente organizzazione malavitosa, che da sette anni è costretto a vivere come un criminale; Ming è invece un affiliato della stessa organizzazione, che è stato scelto per infiltrarsi nella polizia ed è riuscito a fare carriera all'interno di essa. Mentre in entrambi gli ambienti diviene sempre più evidente la presenza di una spia, i due uomini devono fare i conti con una profonda crisi d'identità, che li porterà a dubitare del proprio stesso ruolo e della fedeltà ai rispettivi capi. Un tema, questo dell'identità (e della sua messa in crisi) non certo nuovo per il cinema di Hong Kong, sviluppato qui in un doppio contesto comunque in grado di avvincere, in virtù della bontà della narrazione e della messa in scena. La regia di Andrew Lau e Alan Mak riesce a tenere la tensione sempre alta, grazie a un buon senso del ritmo (aiutata in questo da un notevole lavoro di montaggio) e a un generale tono cupo, crepuscolare, che ben asseconda il carattere dello script, sempre attento a mantenere l'attenzione sulla problematicità delle azioni dei due protagonisti. La fotografia (curata dallo stesso Lau, ma supervisionata dal grande Christopher Doyle) contribuisce da par suo all'atmosfera del film, con un'alternanza molto efficace di luci artificiali e chiaroscuri, di notevole eleganza formale.
Il cast del film è di altissimo livello: tutti gli interpreti offrono ottime caratterizzazioni, per dei personaggi tratteggiati comunque molto bene dalla sceneggiatura. Perfetti, e mai sopra le righe, risultano i due combattuti antagonisti Andy Lau e Tony Leung Chiu Wai, altrettanto intensi i "comprimari" (ma sono tali solo sulla carta) Anthony Wong ed Eric Tsang, molto funzionali anche le presenze femminili Kelly Chen e Sammi Cheng, che riescono a massimizzare lo spazio (relativamente ridotto) offerto loro dallo script.
Siamo di fronte a un cinema di intrattenimento di ottima fattura, quindi, che, seppur influenzato (nella sua componente visiva) dai cambiamenti intervenuti nell'industria del cinema cantonese degli ultimi anni, riesce a mantenere vivo lo spirito di base della cultura che lo ha generato: un risultato sicuramente buono, che può essere una delle basi per ricostruire una cinematografia che ha sofferto negli ultimi tempi (anch'essa) di una notevole crisi d'identità.
Movieplayer.it
4.0/5