I sette bodyguard
Trasferire interamente Hong Kong in Cina. È quello che è accaduto, letteralmente, per la realizzazione di Bodyguards & Assassins, gigantesca coproduzione che mette insieme i capitali hongkonghesi della società di Peter Ho-sun Chan con quelli della compagnia di stato cinese (responsabile, tra l'altro, del recente kolossal di propaganda The Founding of a Republic). Per l'occasione è stato fabbricato un immenso studio a Shanghai che ricostruisce interamente e minuziosamente l'Hong Kong degli inizi del Novecento dove è ambientato il film. Si tratta di una vera e propria impresa che però ha anche un forte significato simbolico e rivela in maniera palese le intenzioni dell'industria cinematografica del continente: quella di appropriarsi del cinema di Hong Kong (maestranze e attori inclusi) e di riedificarlo in seno alla Repubblica popolare. È un po' quello che succede anche a livello propriamente testuale e stilistico in Bodyguards & Assassins, un film che si ispira dichiaratamente alla gloriosa scuola di film d'azione hongkonghese (attingendo anche a interpreti divenuti icone di questo cinema, come Donnie Yen), salvo poi rielaborarle per adattarle alle esigenze spettacolari e gargantuesche dei nuovi blockbuster made in China.
Forse è anche per queste ragioni che l'action ad ambientazione storica del regista Teddy Chen (che sta preparando, guarda caso, il remake di un altro classico di arti marziali di Hong Kong, The Flying Guillotine) risulta come diviso in due parti nettamente distinte tra loro. Per oltre un'ora, infatti, assistiamo a un'attenta descrizione del contesto storico del film (i moti rivoluzionari organizzati dall'eroe repubblicano Sun Yat-sen, deciso a far capitolare la dinastia Qing), ma soprattutto a una minuziosa definizione dei personaggi che saranno coinvolti nell'azione successiva, di cui apprendiamo tensioni e conflitti psicologici. Bodyguards & Assassins delinea infatti un ritratto corale, costituito da un gruppo eterogeneo che si unirà insieme per proteggere Sun Yat-sen da un complotto ordito per assassinarlo. Si tratta di individui di varia estrazione sociale e caratterizzati da esperienze personali molto diverse tra loro: l'intellettuale Chen (Tony Leung Ka Fai), l'imprenditore Li Yue-tang (Xueqi Wang) e il suo figlio rivoluzionario, il maestro d'arti marziali rovinatosi con il gioco d'azzardo Sum Chung-yang (Donnie Yen), il guidatore di risciò Ah Si (Nicholas Tse), il gigante buono Wang Fu-ming (Mengke Bateer) e il barbone Lau (Leon Lai). Tutti sono però accomunati da un conflitto irrisolto di tipo padre - figlio (o maestro - discepolo, che in Cina è in pratica la stessa cosa), metafora di un contrasto più ampio di tipo politico tra governanti e governati. E tutti decideranno di contribuire alla causa di Sun Yat-sen, ciascuno in base alle proprie capacità e competenze, decidendo alla fine di sacrificarsi senza esitazione in nome dell'ideale rivoluzionario.
È come se questa prima parte - eccessivamente diluita e riccamente sontuosa nella confezione - fosse stata concepita per compiacere in particolare i gusti del pubblico cinese, intrisa com'è di accenti melodrammatici e portatrice dei valori di unità e armonia tipici delle produzioni di Stato. Il registro del film, tuttavia, cambia improvvisamente quando finalmente si scatena l'azione, inibita e imbrigliata per quasi un ora e mezza. Da questo momento in poi, per la gioia di tutti gli appassionati d'arti marziali, si inizia a respirare l'atmosfera del cinema di Hong Kong che fu. Teddy Chen dimostra una perizia incredibile nel filmare i frenetici combattimenti che si succedono senza sosta nell'ultima mezz'ora, coreografati in maniera realistica e "alla vecchia maniera", ovvero senza fare troppo ricorso ad effetti speciali computerizzati. Il regista si ispira a classici che hanno fatto la storia del cinema d'azione in costume, come Once Upon a Time in China, e i suoi duelli omaggiano la tradizione del kung fu movie (in particolare lo scontro "uno contro cento" affidato al veterano Leon Lai, armato di ventaglio di ferro). Una escalation da mozzare il fiato che cita perfino capisaldi come I sette samurai e La corazzata Potëmkin, e che si conclude con un'esaltazione del valore e del sacrificio individuale. Cinema epico, nel pieno senso del termine.