Una maternità che non arriva e l'accudimento di figli altrui: è il limbo materno di donne che accettano i termini e le condizioni dell'educazione di ragazzi nati da altri grembi, bambini e bambine che all'epitome di "mamma" sostituiscono il tuo nome di battesimo, perché mamma non sei, nonostante le responsabilità, nonostante l'accettazione di crescerli come tuoi.
Come sottolineeremo in questa nostra recensione de I figli degli altri (in originale Les Enfants des Autres) la quarantenne Rachel non è mamma, ma figlia, sorella di una donna incinta, professoressa di ragazzi che con fare incerto compiono i primi passi nel mondo degli adulti, e compagna di un uomo che padre lo è già. Il suo è un piccolo mondo che ruota attorno a un desiderio materno che sembra non realizzarsi; eppure tutto intorno a lei rimanda a quel ruolo di mamma che senza accorgersi la donna ricopre in molteplici forme e sfumature; quelle di Rachel sono pennellate che lei stessa compie con fare ingenuo e istintivo, lasciando segni in studenti in difficoltà, e crescendo come propria la piccola Leila, frutto del primo amore del suo attuale compagno Alì. Ne consegue un dipinto quanto mai attuale, che con fare elegante e allo stesso tempo semplice - ma mai banale - riflette una continua lotta interiore tra lo slancio materno e l'accettazione di sentirsi solo e semplicemente la custode dei figli degli altri.
I FIGLI DEGLI ALTRI: LA TRAMA
Rachel è una donna di quarant'anni, senza figli. Ama la sua vita: gli studenti del liceo in cui insegna, gli amici, il suo ex, le lezioni di chitarra. Quando si innamora di Ali, stringe un legame profondo anche con Leila, la figlia di quattro anni dell'uomo. Le rimbocca le coperte prima di dormire, se ne prende cura, le vuole bene come se fosse sua. Ma amare i figli degli altri è un grosso rischio.
LA REALTÀ MATERNA
Si muove silente tra le fila del cinema francese uno sguardo attento e di caratura sociale; è uno sguardo costantemente pronto a cogliere i dissidi, le discrepanze, i terremoti che vivono e rivoluzionano il comparto civile della realtà che ci circonda. È uno sguardo che può attaccare, colpire alle viscere bruciando gli occhi come in Athena (qui la nostra recensione da Venezia), far ridere e riflettere come in Quasi amici, oppure prendere per mano lo spettatore e condurlo tra gli spazi di un'esistenza ordinaria e per questo fortemente attecchita alla realtà come ne I figli degli altri. L'opera diretta da Rebecca Zlotowski non vanta molte pretese, ma solo un grande pregio: colmare una lacuna nel micoruniverso del cinema europeo, combaciante con quella del racconto della famiglia allargata, fatta di coppie che scoppiano, nuovi amori che sbocciano e figli chiamati a dividersi tra mamma e papà, partner e compagne, case diverse e abitudini nuove. Entrando con eleganza tra i meandri di quel cinema popolare capace comunque di nobiliare la propria resa finale grazie alla profondità del tema trattato e al respiro dolce-amaro che lo avvolge, I figli degli altri è un romanzo di formazione dell'essere quasi-materno. È un viaggio interiore di una donna destinata a concretizzare la propria aspirazione al ruolo di mamma solo per vie indirette; le sequenze che segnano il romanzo di formazione materna di Rachel sono capitoli di una vita presa in prestito da quello scarto di realtà che scorre al di là della cornice cinematografica. Sono punti e a capo di carattere umano, segnati da punti di interpunzione (iris soprattutto) che ne delimitano i confini, stabilendo un nuovo punto di partenza e di continua riscoperta da parte della protagonista. Rachel compie le proprie azioni con fare indeciso; sbaglia, cade, si rialza in piedi mettendo a posto i cocci di una vita immortalata da Rebecca Zlotowskia dovuta distanza. Senza indugiare o intromettersi troppo nello scorrere degli eventi, la sua cinepresa studia i passi da compiere, i metri da mantenere tra sé e ogni personaggio in campo, analizza le situazioni e meticolosamente comprende se unire, o allontanare, i propri amanti nello spazio di un raccordo di montaggio. Il canovaccio filmico qui seguito è quello stabilito da un cinema di stampo classico hollywoodiano che la regista riesce ad aggiornare in linguaggio attuale, ripiegandolo su un universo più vicino a sé come quello francese, così da redigere un testo universale a tutti facilmente accessibile, sia mentalmente che umanamente.
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MAMMA RACHEL
Hanno qualcosa di unico le donne incinte, una brillantezza negli occhi e uno sguardo caldo e accogliente che abbraccia, colpisce, fa stare bene. Rachel non è incinta, ma quella gioia di vivere, quegli occhi ammantati di fulgido splendore, sono comunque diamanti accecanti che le vestono lo sguardo illuminandole il viso. Rachel non è incinta, ma è innamorata. Tutto attorno a lei si anima e si accende; dalla sua pelle si sprigiona un senso di dolcezza e ottimismo pronto a riflettersi in una fotografia armoniosa e accesa, solo raramente attraversata da lingue di ombre, figlie saturnine scaturite da sofferenze improvvise e dolori lancinanti. Spesso racchiuso tra i canoni caratteriali di un ruolo secondario, ai limiti dell'antagonista e contenitore di recrimini e rimpianti, il ruolo della nuova compagna del padre adesso si eleva a protagonista assoluta, portatrice di amore e dolcezza, responsabilità da assumersi e compiti da eseguire. Non ha nulla di negativo la Rachel di Virginie Efira; l'attrice fa un passo indietro per compiere la propria trasformazione in una donna accondiscende, più materna di tante altre madri, toccante e malinconica, che ha saputo tramutare il senso di mancanza di un figlio proprio, in un amore moltiplicato e condiviso tra i propri studenti e la piccola Leila. Nel corpo morbido della protagonista si percepisce quasi il calore umano che da lei traspare: complici i primi piani offerti dalla Zlotowski sugli occhi pieni di sentimento e umana solitudine della Efira, ogni piccolo mutamento d'umore, ogni negatività respinta e ogni sfumatura di un'empatia universale vanno adesso a trafiggere lo sguardo del proprio spettatore, coinvolgendolo in un abbraccio caloroso. Coinvolta nella vita di Leila, per poi essere messa da parte durante festeggiamenti ed eventi speciali, professoressa comprensiva e segnante la vita dei propri studenti, Rachel diventa pertanto madre anche di ogni singolo componente del pubblico; è rimando indiretto a un amore dato e ricevuto, senza retorica o troppo melenso sentimentalismo. La sua Rachel è la semplice trasposizione di un desiderio innato, e un carattere reale, un limbo umano tra sogno e verità, mamma reale e solo prestata.
I FIGLI DI CUORE E DI PANCIA
Forse rallentato da un epilogo che tarda ad arrivare, I figli degli altri non pretende di essere un film da annoverare negli annali del cinema, ma si limita piuttosto a tratteggiare in vesti nuovi (eppure già affrontati) una figura femminile tra l'essere donna e l'essere quasi mamma. Quello di Rachel è un cammino lungo il quale imparare un ruolo che probabilmente sarà costretta a svolgere solo per volere di altri, una danza di scoperte ed errori accompagnata da un commento musicale coinvolgente e in perfetta armonia. Nessun ribaltamento registico, o grandi sconvolgimenti tecnici: I figli degli uomini riesce là da dove prende vita, ossia nel racconto puramente umano di una donna in lotta con se stessa e il tempo che scorre inesorabile. Una scelta coerente, che lo fa di questo film un'operazione apprezzabile e accessibile, di crescita umana e rapporti sentimentali. Nessun slancio virtuosistico: il film della Zlotowski è un'opera di puro cuore, sufficientemente riuscita nel suo essere imperfetta, calorosa e con qualche difetto da perdonare, proprio come una mamma.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de I figli degli altri sottolineando come il film di Rebecca Zlotowski non aspira a essere un film di tecnica, ma di cuore. Seguendo i canoni del cinema classico hollywoodiano, tratta con eleganza il tema della maternità mancata e delle famiglie allargate nell'epoca contemporanea.
Perché ci piace
- La performance di Virginie Efira.
- Gli argomenti trattati.
Cosa non va
- Una regia a volte poco coraggiosa.
- I troppi papabili epiloghi.