Honey Boy, la recensione: Se il cinema ti salva la vita

La recensione di Honey Boy, il film scritto da Shia LaBeouf a partire dai ricordi della sua infanzia: un biopic atipico sulla funzione salvifica dell'arte.

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Honey Boy: Noah Jupe durante una scena

Un atto catartico, un omaggio alla vecchia arte clownesca, un'appassionata riconciliazione con la vita e i propri padri. Non può che partire da qui la recensione di Honey Boy, un film diretto da Alma Har'el e basato su una sceneggiatura che l'attore Shia LaBeouf ha scritto ispirandosi ai diari terapeutici tenuti durante un periodo di rehab dopo l'arresto avvenuto in Georgia nel 2017.
La star di Transformers, che per anni ha occupato le copertine dei tabloid per le sue uscite bizzarre (a Berlino nel 2011 sfilò con un sacchetto di carta in testa con s scritto "Non sono famoso"), la dipendenza da alcol e droga, le risse e le folli performance (come quella in cui decise di passare 24 ore in un ascensore dell'Università di Oxford dando a chiunque la possibilità di parlare con lui), si mette a nudo in un'opera fortemente autobiografica in cui non fa sconti né alla Hollywood dei bambini prodigio né a se stesso e si lancia nel racconto toccante della propria infanzia burrascosa e del suo controverso rapporto con il padre alcolizzato, reduce del Vietnam. Un film che apre il cuore e riflette sul potere salvifico dell'arte, forse non del tutto perfetto, ma che vale la standing ovation che si è conquistato al Sundance Film Festival prima di arrivare dalla Festa del Cinema di Roma.

Una trama da indie movie

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Honey Boy: Shia LaBeouf, Noah Jupe in una scena del film

Terapeutico si direbbe, ma Honey Boy è anche tanto altro. Shia LaBeouf lo scrive e lo interpreta, riservandosi nientemeno che il ruolo del papà, James, cambia i nomi dei protagonisti ma i riferimenti alla sua vita sono evidenti. La storia è quella di un giovane attore, Otis, finito in un centro di riabilitazione dopo l'ennesimo eccesso; gli viene riscontrato un disturbo da stress post traumatico, per superarlo dovrà scrivere dei diari attingendo ai ricordi dell'infanzia. Quella trascorsa nella stanza scalcinata di un motel vicino agli studios insieme a un padre rude, violento e spiantato ex clown di rodeo, che non ha altro sostentamento se non i soldi che arrivano dal lavoro del figlio. Inizia così un cammino di riconciliazione con una figura paterna invadente, che per anni ne ha condizionato la vita; LaBeouf chiude i conti con il passato attraverso il potere dell'immaginazione e lascia che lo spettatore ne faccia parte.

Shia LaBeouf: quando la vita diventa una performance d'arte concettuale

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Honey Boy: Shia LaBeouf in una scena del film

La narrazione procede tra i flashback di Otis bambino diviso tra i set e gli eccessi del padre, e le visioni del protagonista ormai adulto alla prese con la disintossicazione e il tentativo di far pace con i vecchi fantasmi. Un gioco di alternanze ben gestito dall'esordiente Alma Har'el a cui l'attore ha affidato la regia, ma che rischia di diventare alla lunga ripetitivo. Un suo merito è sicuramente però quello di riuscire a schivare la retorica, reggendo il peso di un biopic in cui la carica emotiva rischiava di prendere il sopravvento; il linguaggio che la regista adotta è da indie movie, la scrittura invece si fa schizofrenica e borderline tanto quanto l'esistenza spezzata che ci si dispiega davanti.

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Honey Boy: Shia La Beouf con Noah Jupe durante una scena

Personaggi bordeline

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Honey Boy: una scena del film

"L'unica cosa di valore che mio padre mi ha lasciato è il dolore e tu vuoi portarmelo via?", dirà Otis/ Shia in una delle battute del film rivolgendosi alla psicologa che lo segue. Già, il dolore, che da sempre ha cadenzato una vita salvata dal cinema, e che sullo schermo ha il volto prima di un tormentato Lucas Hedges, poi di un dodicenne cresciuto troppo in fretta, che il piccolo Noah Jupe interpreta con struggente tenerezza e verità.

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Honey Boy: Shia LaBeouf, Noah Jupe durante una scena

I personaggi in scena dolenti e a tratti clowneschi nel senso più alto del termine, finiscono per essere i pezzi di un puzzle che a volte fa fatica a contenere la strabordante presenza di LaBeouf, ma che è capace di regalare attimi di raffinata commozione, come l'immagine ricorrente di padre e figlio in moto lanciati contro il vento in uno dei rari momenti di complicità.
Frammenti di vita ceduti alla dimensione pubblica, in un film sul perdono e la forza dell'arte (poco importa che sia quella di uno squattrinato clown di rodeo o quella di un attore emergente appeso a ganci e imbracature). Perché nel mondo reale e spietato "le storie, le favole e i sogni sono le uniche cose che sopravvivono".

Conclusioni

Concludiamo la recensione di Honey Boy con l'augurio che questo film possa trovare il giusto successo anche qui da noi. Shia LaBeouf riversa spietatamente sullo schermo la storia della sua infanzia, ne viene fuori un racconto molto personale attraverso il quale l'irrequieta star di Transformers fa i conti con i propri fantasmi, in particolare con il padre, reduce del Vietnam, alcolizzato e senza un soldo. Un atto di perdono, che passa attraverso il potere salvifico del cinema.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
3.2/5

Perché ci piace

  • La riflessione sul potere salvifico dell'arte: il cinema come strumento terapeutico e via di redenzione.
  • Una classica storia sul rapporto padre figlio, raccontata schivando la retorica.
  • Un'autobiografia dove la narrazione trova la giusta distanza, grazie alla regista Alma Har'el, che riesce bene a contenere l'egocentriscmo di Shia LaBeouf.

Cosa non va

  • In alcuni momenti il film rischia di diventare ripetitivo e strabordante.