"Follow the money" ("segui i soldi"), recitava la frase iconica di Tutti gli uomini del presidente, ma forse in questo caso sarebbe meglio dire "follow the shoes" ("segui le scarpe"). Nella black comedy di Luigi Di Capua, Holy Shoes, non sono i soldi ma un paio di scarpe, "sacre" come dice il titolo, a guidare il pubblico attraverso le ossessioni, la rabbia e le frustrazioni di una girandola di personaggi. Quattro storie "di anime e oggetti" per raccontare quello che lo stesso autore, al suo esordio in un lungometraggio di finzione, definisce la "tirannia del desiderio" di essere ciò che non siamo e di possedere ciò che non abbiamo. Una riflessione grottesca e ferocemente nera su un mondo dominato dai codici del consumismo sfrenato, che trova la sua massima espressione nell'oggetto simbolo del desiderio per eccellenza: le scarpe. Il film è in sala dal 4 luglio grazie ad Academy Two.
La storia: una black comedy
"Le scarpe sono lo specchio dell'anima" insegnano i The Pills ne Il buio oltre le Hogan, uno degli episodi cult di quella satira sociale che negli anni Duemila contribuì con i suoi sketch surreali a definire vizi e virtù della generazione dei giovani di allora. Quasi un decennio più tardi sono sempre le scarpe a essere protagoniste, questa volta del debutto alla regia di Luigi Di Capua, uno dei componenti del trio fondatore del collettivo. Con toni certo meno ironici e un registro più dark, Holy Shoes porta in scena le storie di quattro personaggi, le cui vite ruotano attorno al rapporto ossessivo con gli oggetti, in particolare le scarpe, feticcio per antonomasia. Sono le Typo3 (nome di fantasia), Di Capua le fa diventare addirittura "sacre", una sorta di simulacro, un oggetto magico con il superpotere di realizzare i desideri di chi le possiede, anche se i protagonisti sono ben lontani dall'essere dei supereroi.
Vendute come fossero un sogno, idolatrate, bramate, rubate ed esibite sono lo strumento attraverso il quale affermare le proprie fragili identità, affrancarsi dalle umiliazioni subite e far valere il proprio riscatto sociale. 790 euro di felicità. In una Roma plumbea, che potrebbe essere il volto di qualsiasi altra metropoli al mondo, Filippetto (Raffaele Argesanu), un adolescente appena quattordicenne della periferia romana, le regala alla ragazza (Ludovica Nasti) di cui è innamorato, ma non ha i soldi per comprarle e per questo dovrà rubarle; Bibbolino (Simone Liberati) invece, padre single ed eterno bambinone incapace di fare i conti con l'età adulta, quelle scarpe le vende; rampollo dell'alta borghesia quel traffico tra serate trapper e repost su Instagram, gli serve per diventare grande e affrancarsi dalla figura di un padre ingombrante, ex generale dell'esercito costretto a letto da un grave incidente.
Per Mei (Tiffany Zhou), ragazza di origini cinesi che lavora nel ristorante del padre, sono il lasciapassare verso gli Stati Uniti, a Boston, dove vorrebbe proseguire gli studi di ingegneria; il commercio di falsi messo in piedi da Mei potrebbe inoltre risolvere la questione del sussidio negato al fratello più piccolo affetto da sindrome di Asperger. Un girone di dannati al quale non sfugge neanche Luciana (Carla Signoris), una donna mite adagiata nell'ennesimo paio di scarpe basse, rassegnata ad una relazione al riparo da qualsiasi slancio e assopita come ormai anche la sua femminilità alla quale ha rinunciato da anni. Almeno fino a quando un paio di scarpe nere tacco dodici non le pioveranno letteralmente addosso; sono quelle della sua vicina di casa, Agnese (Isabella Briganti), una giornalista in carriera che dopo l'amputazione di un piede, sarà costretta a disfarsene. Indossarle per Luciana vorrà dire riconquistare la donna che aveva abbandonato chissà dove. Ognuno cerca un proprio posto nel mondo e a volte lo troverà attraverso il potere ipnotico di un paio di scarpe.
Holy Shoes, quanto vale la felicità
Tanto vale la felicità e non sorprende che per averle siano disposti a tutto, indossarle gli permetterà di superare quei sentimenti di rivalsa, umiliazione, rabbia, voglia di contare finalmente qualcosa o di essere semplicemente visti, che albergano in ciascuno di loro. "Follow the shoes", dicevamo all'inizio di questa recensione, e non è un caso se seguendo il cammino delle scarpe si assisterà al compimento del destino di tutti i protagonisti, fino alle svolte più macabre. Le storie procedono parallelamente in un vortice di crescente disperazione, il tutto orchestrato da una scrittura arguta e intelligente: pur non azzardando paragoni, è impossibile non pensare a precedenti illustri come il Paul Haggis di Crash - Contatto fisico l'Inarritu di Babel. Holy Shoes è un film profondamente politico che continua a nutrirsi dell'humus in cui Di Capua si è formato ed è cresciuto: il parossismo, la satira sociale, il surreale, ma qui la spinta comica lascia spesso il passo a un registro più nero, quasi horror. Gli uomini e le donne che vi si agitano sono spesso alla deriva, hanno subito un'umiliazione o vogliono soltanto riscattarsi, un immaginario delirante quasi fantastico dove l'avidità supera i confini dell'umana compassione.
Conclusioni
Può un paio di scarpe diventare protagonista assoluto di un film? Sì, Luigi Di Capua ci riesce, e per questo al termine della recensione di Holy Shoes non possiamo che lasciarvi con un invito: correte a vedere il film, piacevole sorpresa di una stagione ai titoli di coda. Il regista e sceneggiatore, che in molti tra i Millennials ricorderanno come uno dei fondatori degli storici The Pills, realizza un’opera prima originale e acuta, una riflessione grottesca e ferocemente nera su un mondo dominato dai codici del consumismo sfrenato, che trova la sua massima espressione nell’oggetto simbolo del desiderio per eccellenza: le scarpe.
Perché ci piace
- Una scrittura arguta e intelligente.
- La scelta di un registro tra black comedy, grottesco e horror.
- Una riflessione originale sui falsi miti del contemporaneo.
- Il racconto corale che procede per storie parallele.
Cosa non va
- Una narrazione a volte sbilanciata a favore di alcune storie, approfondite più di altre.