È possibile amalgamare in un perfetto equilibrio la potenza visiva del cinema, le suggestioni offerte da suoni, parole ed immagini, con la complessità, la ricchezza e la stratificazione del grande romanzo mitteleuropeo? È possibile trasformare uno spettacolo cinematografico in un'esperienza incredibilmente densa ed avvolgente, ma capace al tempo stesso di restituirci uno spaccato, quanto mai intimo e vivido, della storia di un'intera nazione?
È l'impresa ripetuta ancora una volta, a trent'anni di distanza dal primo e più ambizioso cimento, dal regista tedesco Edgar Reitz con L'altra Heimat - Cronaca di un sogno: un capolavoro che trascende qualunque connotazione o estetica da film storico per abbracciare invece un naturalismo in grado di trascinare lo spettatore all'interno del proprio microcosmo narrativo, con un effetto immersivo davvero senza pari. Presentato nell'estate 2013 al Toronto International Film Festival e alla 70° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, e ricompensato con tre German Film Award per miglior film, regia e sceneggiatura, L'altra Heimat sarà accessibile anche al pubblico italiano per due giorni, oggi martedì 31 marzo e mercoledì 1° aprile, grazie agli sforzi congiunti di Nexo Digital e di Ripley's Film. Un'occasione unica ed imperdibile per lasciarsi conquistare da quella che, senza timore di iperboli, può già essere definita una delle più emozionanti opere d'arte della nostra epoca.
Un passo indietro: alle origini di Heimat
L'altra Heimat, pur nella sua essenza di film assolutamente 'autonomo' e fruibile di per sé, costituisce l'ultimo tassello, in ordine di tempo, di un progetto monumentale, senza dubbio uno fra i più ampi e temerari esperimenti cine-televisivi a cavallo fra i due millenni: Heimat. Un titolo sotto il quale è possibile racchiudere gran parte della produzione (un totale di circa cinquantasette ore di pellicola) del regista e sceneggiatore Edgar Reitz, classe 1932, figura chiave del Nuovo Cinema Tedesco, emerso all'attenzione della critica e del pubblico internazionali alla metà degli anni Ottanta, proprio grazie alla prima parte di tale progetto: Heimat, titolo-evento del Festival di Venezia 1984, dove fu presentato fuori concorso suscitando l'immediato entusiasmo della critica. Trasmesso come uno sceneggiato a puntate dalla TV tedesca e proiettato nelle sale italiane, Heimat può essere considerato un moderno equivalente della tradizione romanzesca europea: un magistrale film-fiume suddiviso in undici episodi (oltre quindici ore di durata complessiva) per raccontare, con un approccio inedito e minimalista, la storia della Germania del ventesimo secolo.
Più precisamente, Heimat copre il periodo compreso fra il 1919, al termine della Prima Guerra Mondiale, e il 1969, con un epilogo ambientato nel 1982, e mette in scena le vicende degli abitanti di Schabbach, un immaginario villaggio dell'Hunsrück: una piccola comunità rurale la cui esistenza scorre con placida ed apparente immobilità, lontana dai clamori e dalle tragedie che caratterizzeranno le sorti della Germania del Novecento. Alla portata dirompente, spesso addirittura incommensurabile, dei grandi eventi storici - la Repubblica di Weimar, l'ascesa del Nazismo, le persecuzioni antisemite, la Seconda Guerra Mondiale e la divisione dello Stato tedesco - Reitz e il suo co-autore Peter F. Steinbach contrappongono una dimensione quotidiana e 'privata', rappresentando esperienze, amori, delusioni e speranze degli uomini e delle donne di Schabbach. Al cuore della narrazione vi sono soprattutto tre famiglie, i Simon, i Wiegand e gli Schirmer, all'interno delle quali si succedono le differenti generazioni, secondo un percorso ciclico che, di episodio in episodio, finisce per riflettere l'ineluttabile alternanza fra le stagioni della vita.
La saga della famiglia Simon
Nel villaggio di Schabbach si identifica dunque il significato di heimat, ovvero la "patria": la patria in cui all'inizio di Heimat, nella puntata dal titolo Nostalgia di terre lontane, rimette piede Paul Simon (Michael Lesch), di ritorno nel suo paese natale dopo il servizio militare e la prigionia; e la patria che nove anni dopo, nel 1928, lo stesso Paul abbandonerà all'improvviso, per attraversare l'Oceano Atlantico, senza fornire alcuna spiegazione alla giovane moglie, Maria Wiegand (Marita Breuer). Proprio Maria, ideale protagonista nell'ambito di un impianto di estrema coralità, assurge a figura pivotale attorno alla quale ruotano quasi tutti gli altri personaggi, i cui rispettivi destini si intrecciano e si disgiungono in un flusso imprevedibile ed irregolare, contraddistinto da dilatazioni, accelerazioni ed ellissi, e che sembra rispondere alle leggi della memoria - individuale e collettiva - piuttosto che a precise convenzioni drammaturgiche.
È la memoria a mantenere e rinsaldare il senso di continuità fra la generazione dei padri e la generazione dei figli, fra passato, presente e futuro, ed è la memoria a garantire la sopravvivenza del concetto stesso di "patria" tra un decennio e l'altro. Heimat si rivela pertanto qualcosa di più e di diverso da una semplice cronistoria familiare: la sua intrinseca polifonia, un autentico caleidoscopio di voci e di volti, è il veicolo per proporre allo spettatore una pluralità di punti di vista, fino a sfociare in un ultimo capitolo, La festa dei vivi e dei morti, in cui i piani del passato e del presente, della realtà e dell'onirico, si fondono e si confondono in occasione delle celebrazioni funebri per la scomparsa dell'anziana Maria Simon: la matriarca capace, perfino nella morte, di esercitare un'attrazione centripeta in grado di riunire nelle vie di Schabbach tutte le 'anime' dell'heimat, quelle dei vivi così come quelle dei defunti.
Heimat 2 ed Heimat 3: il romanzo di formazione di Hermann Simon
Alla struttura corale del primo Heimat corrisponde invece il racconto di formazione di un singolo protagonista in Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza, seconda parte del progetto di Edgar Reitz, realizzata nel 1992. Composto da tredici episodi per una durata di più di venticinque ore, Heimat 2 è un formidabile esempio di Bildungsroman totalmente incentrato su Hermann Simon, figlio di Maria Simon e dell'ingegnere Otto Wohlleben (Jörg Hube), al quale era già dedicato un intero episodio di Heimat, Hermännchen: collocato fra il 1955 e il 1956, Hermännchen narrava l'educazione sentimentale di Hermann (Jörg Richter), adolescente con un prodigioso talento per la musica, perdutamente innamorato della più matura Klärchen Sisse (Gudrun Landgrebe). Heimat 2 recupera il filo dell'esistenza di Hermann a partire da quattro anni più tardi, nel 1960, quando all'età di vent'anni (e interpretato dall'attore Henry Arnold) Hermann approda a Monaco di Baviera per studiare musica; a contatto con un ambiente Bohémien, fra giovani musicisti e intellettuali in erba, Hermann troverà a Monaco una nuova patria e si legherà sentimentalmente alla violoncellista Clarissa Lichtblau (Salome Kammer).
Cronaca dei fermenti culturali e sociali degli anni Sessanta (la serie si apre nel 1960 con L'epoca delle prime canzoni e si chiude nel 1970 con L'arte e la vita), Heimat 2 conferma l'imprescindibile valore dell'opus magnum di Reitz, con un percorso narrativo che rievoca il ciclo cinematografico di François Truffaut sulla vita e gli amori di Antoine Doinel (non a caso, del resto, la Nouvelle Vague ha influito in maniera determinante sulla produzione di Reitz). Passeranno altri dodici anni quando, nel 2004, Edgar Reitz riprenderà in mano le sorti di Hermann Simon in Heimat 3 - Cronaca di un cambiamento epocale, il terzo capitolo della trilogia di Heimat, articolato in sei pellicole per quasi dodici ore di durata. Ancora una volta, le vicende individuali dei personaggi si collocano nel quadro della storia della Germania del Novecento: il primo film, Il popolo più felice della Terra, si apre infatti nel 1989, nel momento della caduta del Muro di Berlino, evento fatidico che prelude all'imminente riunificazione delle due Germanie, mentre l'ultimo, Congedo da Schabbach, si conclude undici anni dopo, nel 2000, all'alba di un nuovo millennio, portando a compimento una riflessione quanto mai stimolante e problematica sullo scorrere del tempo, sui legami fra le generazioni, sull'importanza delle proprie radici e sull'incessante confronto fra l'Uomo e la Storia.
Ritorno a Schabbach: cronaca di una giovinezza
Frutto del sapiente lavoro di scrittura di Edgar Reitz e di Gert Heidenreich, L'altra Heimat - Cronaca di un sogno, pur inserendosi in un'ideale linea di continuità con la precedente trilogia, al tempo stesso si distingue recisamente da Heimat per offirsi al pubblico come una visione sorprendente ed inedita, tanto nella materia narrativa quanto nel 'formato': alla dimensione seriale (e volutamente dispersiva) della trilogia si sostituiscono l'organicità e la concisione di un unico film di duecentotrenta minuti, alla progressione cronologica fa da contraltare un "ritorno al passato", al villaggio di Schabbach nel biennio compreso fra il 1842 e il 1844, alle esistenze degli antenati della famiglia Simon. Non un semplice antefatto, quindi, ma un nuovo racconto di formazione che è al contempo un irrinunciabile sogno di libertà: quello del giovanissimo Jakob Simon, al quale presta il volto l'esordiente Jan Dieter Schneider. Figlio del fabbro del paese, Johann Simon (Rüdiger Kriese), e di sua moglie Margarethe (Marita Breuer), Jakob vive proteso verso un futuro da costruire: un futuro che passa attraverso la conoscenza, lo studio della natura e delle lingue, l'apprendimento del lessico dei popoli del Sud America, "terra promessa" nella quale Jakob aspira a trasferirsi.
Il passaggio di Jakob dall'adolescenza all'età adulta, osteggiato da un padre impossibilitato a comprendere la sete di cultura di suo figlio, e i ritmi di questa piccola comunità di contadini e di artigiani, scanditi dal susseguirsi delle stagioni, sono resi per immagini da Edgar Reitz mediante una messa in scena dal fascino ineffabile e dallo straordinario potere evocativo: dalle impeccabili scenografie di Anton Gerg ed Hucky Hornberger, che ricostruiscono un villaggio di metà Ottocento con un senso di realismo e un'attenzione ai dettagli a dir poco stupefacenti, al magnifico bianco e nero della fotografia di Gernot Roll, con la luce che si riflette sui paesaggi innevati dell'Hunsrück, ma in cui all'improvviso irrompono subitanei elementi cromatici, come nella scena in cui Jakob elenca alla sua coetanea Jettchen Niem (Antonia Bill) i numerosi termini del lessico di una tribù amazzonica per definire le differenti tonalità del verde. La curiosità intellettuale e i segreti della linguistica divengono così le chiavi di accesso per una prospettiva più profonda e consapevole sulla realtà stessa e sui suoi 'colori', quei colori che soltanto Jakob sembra capace di percepire.
Alla ricerca dell'altra heimat
Jakob, che solleva uno sguardo traboccante di meraviglia verso il nibbio dall'elegante piumaggio posatosi su un ramo sopra la sua testa, è un personaggio emblematico di una modernità incipiente: modernità intesa non come obliterazione del modus vivendi, delle tradizioni e dei valori della "civiltà dei padri", ma come il coraggio di spingersi, con il pensiero, con gli occhi e con il cuore, oltre le frontiere della propria patria familiare, come la fantasia necessaria ad attribuire forma e colori a un intero universo ancora tutto da scoprire. Perché il mondo di Jakob, riflette il ragazzo, è un mondo immerso nella notte, e in cui gli uomini devono imparare ad orientarsi nell'oscurità. E allora, perfino l'apparizione della Grande Cometa nel marzo del 1843 si configura come un'allegoria di quella libertà tanto ricercata ed agognata: una libertà che nelle parole di Jakob, incantato ad ammirare la cometa dalle sbarre di una cella prussiana, viene definita come "un sacro diritto custodito nei nostri cuori".
In tal senso, assume un valore paradigmatico il cameo del grande Werner Herzog, altra colonna portante dell'ultimo mezzo secolo di cinematografia tedesca, nel ruolo di Alexander von Humboldt, celebre naturalista ed esploratore il quale, in visita a Schabbach dopo aver ricevuto una lettera di Jakob, lascia al suo fervente ammiratore un messaggio che suona come un imperativo morale: "Rimanga fedele alla scienza!". È il suggello di un film dalla bellezza sconfinata, in grado di coniugare la propria poetica del quotidiano con momenti di struggente lirismo. Un film in cui il tenero romanticismo del primo amore, appassionato e doloroso, viene cristallizzato nella dimensione del rimpianto, e in cui l'emozione esplode con silenzioso fragore nel corso di abbacinanti epifanie. Un film che si libra, con miracolosa leggerezza, sulle ali di un cinema svincolato da regole e costrizioni, e che non ha paura di elevarsi ad altezze sublimi, trascinando con sé lo spettatore in un viaggio indimenticabile; un viaggio con i contorni di un sogno, ma non per questo meno viscerale e toccante...