_"Non ho dubbi sul fatto che l'esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del "carattere nazionale", per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future." _In questo modo l'intellettuale ebrea-tedesca Hannah Arendt nel 1963 chiudeva una intervista con Samule Graffon sulle molte polemiche sollevate dalle teorie rivoluzionarie espresse ne La banalità del male. Il suo scritto, frutto degli interrogatori ascoltati durante il processo al nazista Adolf Eichmann, portò alla considerazione che il male possa non essere radicale e che, proprio a causa dell'assenza di memoria e radici, persone altrimenti banali riescano trasformarsi in artefici di distruzione di massa. Un pensiero, questo, che sconvolse l'allora comunità ebraica fortemente ripiegata su sé stessa nel tentativo di guarire le proprie ferite, ma che ha consegnato al processo filosofico e storico un personaggio dalla mente straordinariamente acuta. Dunque, non stupisce che questa donna in perenne lotta con qualsiasi definizione statica abbia attratto l'attenzione di una regista come Margarethe von Trotta ispirando il suo ultimo lavoro intitolato proprio Hannah Arendt.
Margarethe e Hannah
Presentato in esclusiva al Bari International Film Festival e portato in sala dopo molte difficoltà da Ripley's Film il 27 e 28 gennaio in occasione della Giornata della Memoria, questo film s'inserisce perfettamente nel percorso artistico della Von Trotta, spesso concentrato sul coraggio della femminilità a confronto con gli eventi tragici della Storia, e offre la possibilità di andare oltre le immagini dell'orrore parlando di rielaborazione e futuro. "Quando ho iniziato a studiare la personalità complessa di Hannah, non avevo idea di quale periodo della sua intensa vita avrei scelto di raccontare - dichiara la regista durante la conferenza stampa - La fuga dalla Germania nazista nel '33, gli anni trascorsi in Francia fino all'invasione tedesca e la scelta di rifugiarsi in America senza sapere una sola parola d'inglese sono eventi che raccontano molto di una donna libera e sicura delle proprie decisioni, ma nulla come la formulazione de La banalità del male dimostra l'autonomia mentale di un pensatore slegato da qualsiasi appartenenza etnica e fedele solo al pensiero indipendente."
L'ira della comunità ebraica
Però, nonostante i molti detrattori e la violenza con cui si sono scagliati contro di lei, le teorie della Arendt hanno il vantaggio di portare splendidamente i loro anni tanto da rendere incredibilmente attuale un film capace di raccontarla sotto molti punti di vista grazie all'interpretazione di Barbara Sukowa, allo stesso tempo forte e ironica. In questo modo Margarethe Von Trotta, affidandosi a una interprete con cui ha condiviso molta strada artistica, riesce a dipingere un ritratto completo in cui la donna e l'intellettuale diventano i due volti di una stessa realtà umana. " Ho voluto costruire un dialogo continuo tra la vita privata e il lavoro. Solo attraverso questo percorso in parallelo ho potuto dare voce a Hanna e alla Arendt allo stesso modo. Per questo motivo ho inserito momenti di intimità, anche controversa, con il marito Heinrich Blucher, mentre la figura discussa di Martin Heidegger parla soprattutto della sua formazione come pensatrice. Nonostante la consapevolezza che puntare l'attenzione sulla loro relazione sentimentale avrebbe facilitato il percorso produttivo del film, ho deciso di considerare Heidegger soprattutto nella sua funzione di mentore e compagno di riflessioni capace di cadere nella trappola del nazismo e di deluderla profondamente. In questo modo ho messo l'accento su un confronto tra i due, ossia sull'uomo con capacità di pensiero ma che si lascia sedurre dall'ideologia e su di una pensatrice pura come lei incapace di riconoscere appartenenze. Perché, alla fine di tutto, è il pensiero che ci protegge di fronte alle catastrofi." _ Successi inaspettati e vecchie polemiche
A questo punto, dopo cinquant'anni dalla discussa pubblicazione de La banalità del male, come è stato accolto il film? E, soprattutto, le opinioni della Arendt suscitano ancora scandalo e indignazione? "In Germania e negli Stati Uniti il film è stato un successo _ - conclude soddisfatta la regista - _ Certo, non parliamo delle cifre raggiunte dai film hollywoodiani visto che la gente non corre in massa a vedere la storia di una filosofa ebrea, ma c'è stato grande interesse. Questo è stato l'atteggiamento del pubblico, mentre gli accademici hanno sollevato ancora vecchie polemiche. In Germania, a esempio, alcuni storici mi hanno rimproverato per non aver inserito nel film delle documentazioni successive riguardo alle attività naziste. Ma io volevo offrire un suo ritratto e per farlo dovevo necessariamente camminare con lei seguendo il suo pensiero del momento senza dimostrare di saperne di più. Lo stesso è successo in Francia e in America, anche se vengo continuamente invitata a parlare di lei in molte università. Del tutto diversa la reazione di Israele che ha contribuito anche alla co-produzione del film con la Film Commission di Gerusalemme. Dopo essere stato interdetto per molti decenni, La banalità del male è uscito in Israele solo nel 2002, ormai senza provocare nessuno scandalo."